Stanno lavorando per noi: un esercito di professionisti che hanno fatto della cura per l’ambiente la propria missione. Scopri quali sono le professioni eco-friendly che daranno uno schiaffo alla crisi.
Combattono l’inquinamento delle acque, lavorano per garantirci aria più pulita, regalano una seconda vita ai nostri rifiuti, investono denaro e creatività in processi produttivi all’avanguardia e rispettosi dell’ambiente. Hanno talento ed energia contagiosi: stiamo parlando dei professionisti che hanno fatto dell’eco-sostenibilità la propria missione. Eco-chef, stilisti “green”, ingegneri di auto ibride, esperti di impianti eolici e fotovoltaici, difensori dei nostri polmoni verdi, maestri del riciclo: teneteli d’occhio perché potrebbero essere proprio loro a sfidare la crisi.
In una fase economica dominata dalla recessione i nuovi mestieri legati al riutilizzo di materiali, al taglio degli sprechi e alle energie rinnovabili stanno creando occupazione. In base all’ultimo rapporto dell’International Labour Organization sui lavori “green”, uscito all’inizio di giugno, la transizione dall’era del petrolio a un’economia verde potrebbe generare infatti dai 15 ai 60 milioni di nuovi posti di lavoro nell’arco del prossimo ventennio. Nelle pagine seguenti, una selezione delle 10 più promettenti professioni amiche dell’ambiente, da quelle nate da poco a quelle tradizionali ma reinventate in chiave verde, con qualche consiglio sulla formazione richiesta per accedervi.
Fino a 10 mila nuove assunzioni nei prossimi anni: un buon incentivo per spingere i futuri ingegneri a specializzarsi nel settore dell’edilizia verde. Mentre si diffonde la ricerca di soluzioni ecosostenibili all’interno delle case e degli edifici in costruzione, cresce anche la domanda di professionisti che sappiano accostare l’efficienza energetica a soluzioni estetiche gradevoli. Volete installare pannelli solari sul tetto? Il designer di sistemi fotovoltaici saprà integrarli al meglio alla vista e all’architettura preesistente. Quel nuovo quartiere d’affari vuole ridurre gli sprechi energetici? Meglio chiamare uno specialista in management della programmazione energetica, che dirà dove tagliare e quali impianti convertire; e per progettare la coibentazione di un edificio, occorre naturalmente un ingegnere specializzato.
Quella in ingegneria rimane la laurea più ricercata dalle aziende che si occupano di green building, ma anche i professionisti dell’architettura e del design possono trovare in questo campo un mercato attivo e in piena espansione. Dopo la laurea, una buona idea è quella di frequentare un master per consulenti energetici, in bioarchitettura o in bioedilizia e risparmio energetico, in base alla specializzazione che si intende perseguire. I più intraprendenti possono aprire uno studio associato di progettazione di edifici a basso consumo e riqualificazione energetica e lavorare in proprio, anche se le assunzioni in questo campo non mancano. Secondo le stime del Centro Studi CNI (Consiglio Nazionale degli Ingegneri), entro il 2020 più del 20% dei laureati in ingegneria potrebbe trovare spazio nell’edilizia verde.
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Chi ha la passione per la chimica e ama trascorrere del tempo all’aria aperta ha la stoffa per lavorare nell’ambito del monitoraggio ambientale. In particolare c’è un crescente bisogno di queste figure nel settore del controllo delle acque. Lo sfruttamento sconsiderato di fiumi, coste e laghi sta mettendo a dura prova l’ecosistema acquatico italiano: secondo Legambiente un campione su cinque dell’acqua di fiume è di qualità scadente o pessima, e un quarto delle acque sotterranee è contaminato, in particolare dai nitrati, sostanze presenti nei fertilizzanti.
Si calcola che nel Mediterraneo, a causa di incidenti, scarichi e pulizie delle cisterne in mare aperto finiscano 100-150 mila tonnellate di idrocarburi ogni anno. Sono invece 146 i punti critici fortemente inquinati dei mari italiani (dati Legambiente 2011), uno ogni 51 km di costa.
Scoprire quali sostanze inquinanti sono disciolte nei mari e nei corsi d’acqua è il principale compito del tecnico di monitoraggio delle acque. «Il lavoro prevede una parte di operazioni da effettuare in campo e una seconda parte in laboratorio» ci spiegano gli esperti del Dipartimento monitoraggio qualità ambiente marino dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).
«Un tecnico ambientale deve conoscere le principali tecniche di campionamento e conservazione dei campioni, che variano a seconda del tipo di analisi da effettuare. Una volta in laboratorio, i campioni devono essere trattati in modo opportuno prima di essere processati secondo tecniche analitiche di tipo chimico o biologico, per rilevare la presenza di inquinanti ed eventuali tossicità».
Non manca la fase di elaborazione dati: «Ultimi, ma non per importanza, sono il trattamento e la presentazione dei risultati in modo corretto al fine di determinare la qualità delle acque monitorate. La valutazione complessiva viene fatta con l’ausilio di personale esperto, sia in base alle normative esistenti che alla bibliografia di settore».
Una laurea in biologia, scienze ambientali o chimica farà al caso vostro, ma anche un diploma di scuola secondaria di tipo tecnico scientifico, seguito da un periodo di tirocinio in istituti di ricerca sul monitoraggio ambientale rappresenta una preparazione adeguata. Si potrà quindi lavorare all’interno di parchi naturali, laboratori privati, o nelle Arpa (le Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale), alle quali si accede per concorso pubblico.
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Se i boschi sono il vostro habitat naturale e volete contribuire a mantenerli in salute, potreste trovare impiego nella tutela del patrimonio forestale italiano o negli indotti ad esso collegati. Fino agli anni ’60-’70 lavorare in questo campo significava entrare a far parte del Corpo Forestale dello Stato, essere assunti nell’industria del legno o nel settore delle sistemazioni idraulico forestali (e cioè lavorare, per esempio, per stabilizzare pendici franose, nella manutenzione di canali irrigui o nella protezione dalle valanghe).
Oggi chi studia discipline forestali trova impiego soprattutto nella certificazione dell’utilizzo efficiente delle masse legnose, nella gestione delle foreste certificate (cioè gestite in maniera ecosostenibile) e delle lavorazioni di legno e sughero. Ma non solo: «I laureati in discipline forestali trovano sempre più spesso occupazione in settori “emergenti” come conservazione della biodiversità, eco-ingegneria (restauro ambientale, lotta alla desertificazione, bioedilizia), verde urbano, biotecnologie e industria farmaceutica, pianificazione territoriale e architettura del paesaggio, ecoturismo e valorizzazione dei prodotti tipici» spiega il professor Bartolomeo Schirone, del Dipartimento di Agricoltura, Foreste, Natura ed Energia dell’Università della Tuscia (Viterbo).
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12 miliardi di alberi ricoprono un terzo del territorio italiano. Un patrimonio di oltre 10 milioni e 400 mila ettari di superficie, che è cresciuto del 19% negli ultimi 5 anni e costituisce un gigantesco polmone verde.
Secondo i dati Alma Laurea, il 70% dei laureati in discipline forestali trova lavoro entro tre anni dalla fine dell’Università. «In ogni caso accanto alla solita ricerca di lavoro presso imprese ed enti pubblici e privati, mi sentirei di consigliare ai giovani laureati di tentare la strada della libera professione, magari attraverso la formula degli studi associati» continua Schirone. E durante il percorso di studi «non trascurare la storia e la geografia, perché gli ecosistemi cambiano nel tempo e nello spazio, e trascorrere almeno sei mesi all’estero, dove la domanda di specialisti nel settore forestale – per esempio in Svezia – è ancora altissima (l’intervista completa a questo link)». In Italia sono 16 i corsi di laurea in Scienze Forestali, molti di altissimo livello. Il corso di laurea in discipline forestali è presente negli atenei di molte città italiane tra cui Torino, Firenze, Viterbo, Bari, Palermo, Ancona, Campobasso, Napoli, Potenza, Reggio Calabria e Sassari.
Dovere da buon cittadino, ma non solo. Il recupero di materiali riutilizzabili sta diventando, per sempre più persone, una professione vera e propria. E non stiamo parlando del lavoro, prezioso e insostituibile, degli operatori ecologici (che pure costituiscono il primo anello di questa catena) ma di aziende comunali, società pubbliche e private impegnate nel raccogliere i rifiuti ingombranti e la spazzatura raccolta nei vari cassonetti in aree sorvegliate e predisposte, in cui i materiali sono smistati e preparati per essere inviata ai consorzi nazionali di filiera (come Comieco per gli imballaggi a base di cellulosa, o Corepla per quelli a base di plastica). Un business che conviene, e non solo in termini ambientali: secondo uno studio della Commissione Europea, gestione e riciclaggio dei rifiuti danno già lavoro in Europa a 2 milioni di persone e garantiscono un fatturato annuo di 150 miliardi di euro, pari all’indotto complessivo del turismo in Italia.
Il settore del recupero di materiali riutilizzabili è una delle eccellenze dell’economia del nostro paese. L’Italia è infatti al terzo posto nel mondo per il riciclo di alluminio, dopo Giappone e Stati Uniti, e seconda in Europa, dopo la Germania, nel riutilizzo di carta e cartone.
Vi piacerebbe lavorare in questo settore? Non occorre una laurea specifica, ma è utile una buona formazione tecnica: per esempio un diploma in un istituto tecnico industriale, seguito da un corso di formazione a livello regionale per imparare a distinguere e trattare i diversi tipi di rifiuti e conoscere le caratteristiche del territorio in cui si opererà. Un riciclatore provetto sa utilizzare i macchinari necessari per la raccolta e lo stoccaggio dei materiali, rispetta le regole per la sicurezza e l’igiene, è esperto nelle tecniche di trasporto delle varie tipologie di rifiuto e conosce le precauzioni da prendere nel trattamento di quelli pericolosi.
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Essendo un campo in grande crescita esiste, per chi volesse, lo spazio per avviare una piccola attività autonoma. I più intraprendenti possono infatti aprire una stazione ecologica, un’area urbana attrezzata per la raccolta dei rifiuti urbani. Ne esistono davvero di ogni tipologia, da quelle tradizionali, spazi delimitati divisi per tipologia di rifiuti, a quelle più innovative: come il CAM, la stazione ecologica itinerante a pannelli solari di AMSA Milano che passa quartire per quartiere, in giorni prestabiliti. O come le stazioni ecologiche informatizzate presenti in molti comuni minori, che riconoscono l’utente grazie a una tessera nominale e registrano i rifiuti effettivamente separati fornendo sconti sulla bolletta di Tariffa Igiene Ambientale dell’anno successivo. Per lanciarsi in questo genere di attività occorrono alcuni requisiti di partenza, come ampi spazi a disposizione, permessi di costruzione, un buon progetto sviluppato in tutti i punti essenziali, rispetto delle norme di sicurezza e dei vincoli di tutela ambientale.
Una rinnovata veste “verde” può aiutare a rilanciare mestieri tradizionali, aprendo le porte a una clientela più attenta alle tematiche ambientali. In futuro, per esempio, saranno sempre di più i ristoranti gestiti da eco-chef, professionisti della cucina che preparano solo prodotti di stagione, biologici e a chilometro zero, utilizzano poca energia per la cottura, meglio se proveniente da fonti pulite, mettono al bando gli sprechi e lanciano crociate contro i conservanti artificiali. Chi volesse diventare un cuoco eco-friendly, dopo l’istituto alberghiero dovrà specializzarsi con un master su produzioni locali o biologiche, e acquisire una buona dose di esperienza sul campo, magari arricchita con qualche periodo di lavoro all’estero.
Dai fornelli alle forbici, quelle degli eco-parrucchieri: per tinte e impacchi ristrutturanti utilizzano solo prodotti di derivazione naturale, senza solfati, dotano i rubinetti di rompigetto per ridurre i consumi idrici, aumentano la raccolta differenziata, spengono le piastre non utilizzate e acquistano phon di classe A+, che limitano gli sprechi energetici e le emissioni di CO2. Uno sforzo necessario: secondo l’organizzazione ambientalista Kyoto Club, il lavoro dei 150 mila parrucchieri italiani comporterebbe l’emissione di 800 mila tonnellate di anidride carbonica: quella emessa ogni anno da 200 mila auto che percorrano 30 mila chilometri. Anche in questo caso la strada passa attraverso un corso di formazione; ma i saloni già avviati possono rivolgersi a società di consulenza energetico ambientale che monitorino i consumi e suggeriscano strategie per ridurli.
Quello della moda è uno dei settori in cui la rivoluzione verde sta dando i risultati più creativi e incoraggianti: dalle fibre ricavate con materiali di scarto (come dal latte rancido) agli abiti da red carpet realizzati con bottiglie di plastica riciclata, dalle T-shirt compostabili fino al ripensamento delle filiere produttive più inquinanti (vedi quella dei jeans), un occhio all’ambiente è ormai d’obbligo per chi riempie i nostri armadi. In questo caso, dopo una buona scuola per stilisti, la specializzazione in tendenze “verdi” si acquisisce sul campo. Magari aderendo a un circuito per stilisti emergenti che faccia dei capi artigianali e realizzati con materiali di recupero la propria peculiarità.
Sempre più connazionali scelgono, per le tanto sospirate ferie, soluzioni che coniughino divertimento e attenzione all’ambiente. Utilizzo dei mezzi pubblici, alloggio e trasporti a ridotto impatto ambientale, ricerca dei luoghi incontaminati e non intaccati da villaggi turistici, rispetto delle popolazioni locali e della loro economia sono i principi ispiratori di un settore che coinvolge in Italia sempre più operatori e agenzie. Per lavorare in questo campo, uno dei punti di riferimento è il sito dell’Aitr(Associazione Italiana Turismo Responsabile) dove è possibile consultare l’elenco delle cooperative operanti sul territorio italiano e le proposte formative per chi volesse intraprendere questa strada.
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Si trovano qui anche le proposte di master delle università italiane sul tema: dopo una laurea in Scienze del Turismo (o corsi affini) e una specializzazione in agente per il turismo responsabile, si possono contattare le cooperative operanti nel settore, come pure le tradizionali agenzie turistiche, che, per adeguarsi alle richieste del mercato, cercano sempre di più figure di questo tipo per dedicare parte delle proprie proposte a questa fetta di viaggiatori responsabili. Per riconoscere quali sono gli operatori in grado di proporre vacanze “verdi” – e quindi anche un posto di lavoro ai potenziali agenti – occorre controllare se la filiale è in possesso del bollino Csr Tourism, una certificazione attiva in Italia dallo scorso anno che garantisce trasparenza e affidabilità ai clienti che volessero fare questa scelta.
Se negli ultimi anni la crisi economica ha segnato il declino di molte aziende, c’è un settore industriale su cui continua a splendere il sole: quello del fotovoltaico. Secondo Confartigianato, dal 2009 al 2011 le imprese di questa fetta di mercato sono cresciute del 10,2% e sono sempre più richieste figure professionali qualificate.
Secondo il centro studi di Confartigianato da febbraio 2012 il fotovoltaico ha superato l’eolico nella produzione di energia verde in Italia: con i 14.490 GWh prodotti a maggio si sarebbe potuto soddisfare l’intero fabbisogno energetico di tutte le famiglie del Sud Italia.
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Per lavorare nel campo del fotovoltaico le lauree a sfondo ingegneristico sembrano essere le più adatte, così come possono risultare utili i master post laurea nel campo delle energie rinnovabili. Questo tipo di formazione può preparare, per esempio, futuri progettisti di impianti fotovoltaici per edilizia pubblica e privata, ingegneri e architetti specializzati che possano indirizzare correttamente il lavoro degli installatori.
Chi volesse optare per un mestiere più tecnico e imparare a installare pannelli fotovoltaici è bene che parta da una preparazione da elettricista o perito (serve infatti un elettricista abilitato per allacciare l’impianto fotovoltaico alla rete elettrica), per poi proseguire con un corso di formazione presso enti accreditati o regioni. Un bravo installatore dovrà saper montare i pannelli fotovoltaici e provvedere alla loro manutenzione, oltre a conoscere le norme tecniche degli impianti e la legislazione sugli incentivi: tra i siti utili per reperire informazioni e trovare corsi, quello del CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano).
Per chi invece fosse nato con l’anima del commercio esiste la possibilità di diventare rivenditore di impianti fotovoltaici: un commerciante che lavora in proprio e si rifornisce di materiale da rivendere ad aziende o privati. Le conoscenze (sugli incentivi del Conto Energia e sulle procedure per richiedere l’autorizzazione per l’installazione di pannelli) si acquisiscono durante corsi organizzati dalle associazioni di categoria, dalle regioni o da privati. I rivenditori alle prime armi possono affidarsi a una rete di franchising, che garantisca la giusta assistenza per iniziare l’attività.
Se nel campo dell’energia eolica le prospettive potenziali sono molto promettenti – nel 2011 la potenza eolica installata nel mondo è cresciuta del 21%, con l’Italia al terzo posto in Europa per potenza installata – è bene ricordare che nel nostro paese il settore sta attraversando un momento di difficoltà attribuibile, secondo alcuni operatori, anche ai contenuti del nuovo decreto ministeriale sulle rinnovabili elettriche, che entrerà in vigore nel gennaio 2013.
Il provvedimento, che prevede l’accesso agli incentivi statali previa iscrizione in appositi registri o attraverso aste al ribasso, a seconda della potenza di ciascun impianto, dovrebbe consentire all’Italia di raggiungere gli obiettivi europei sulle energie rinnovabili attraverso un sistema di incentivazione più equo e una crescita economica virtuosa. Ma secondo gran parte degli addetti ai lavori il nuovo decreto appesantirebbe la burocrazia rendendo più difficile accedere alle agevolazioni e rallentando lo sviluppo del mercato. Per ANEV (Associazione Nazionale Energia del Vento) sono a rischio 34 mila posti di lavoro.
Eppure nel 2020 le rinnovabili supereranno il 20% della disponibilità totale di energia prodotta nell’Unione europea e l’eolico dovrebbe crescere più di tutti, coprendo dal 2% al 14,1% della disponibilità totale di corrente elettrica. In attesa che questa fase di transizione si risolva, chi fosse interessato a lavorare nell’eolico può partecipare a uno dei corsi di formazione base organizzati da ANEV. Qui, oltre ad apprendere tutte le novità relative ai nuovi sistemi di incentivi, i partecipanti potranno entrare a far parte di un network attivo sul sito di ANEV che mette in contatto la domanda e l’offerta occupazionale nel mondo dell’eolico. Tra le figure più ricercate, ingegneri meccanici ed elettrici specializzati in questa forma di energia e supervisori del funzionamento e del mantenimento delle turbine.
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Abbattere lo smog e favorire il boom di trasporti a energia pulita: è la missione di chi progetta veicoli amici dell’aria. Secondo le previsioni dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, entro il 2030 le auto elettriche costituiranno in Italia il 18% del parco auto nazionale. E intanto, complice il caro benzina, gli italiani mostrano di apprezzare sempre di più i veicoli che garantiscono minori emissioni di CO2, auto ibride e GPL in testa.
Per contribuire alla fase ideativa di questi mezzi di trasporto occorre una laura in ingegneria meccanica, con specializzazione sui veicoli e in particolare nei sistemi ibridi. Da qui, oltre alla strada della ricerca in ateneo, si apre la possibilità di iniziare a collaborare con le grandi case automobilistiche che stanno sperimentando nuove forme di trasporto ecosostenibile.
I migliori prototipi di veicoli verdi provengono proprio dalle idee di giovani ricercatori: a giugno sono stati esposti a Bruxelles, nel corso di una manifestazione dedicata alle iniziative sull’idrogeno, il primo furgoncino alimentato ad ammoniaca del consorzio per la ricerca industriale di Pontedera Pont-tech e l’auto a idrogeno dell’Università di Pisa. Mentre il Politecnico di Torino lo scorso anno ha presentato Xam (Extreme Automotive Mobility) un veicolo ibrido da città, realizzato con materiali riciclati, capace di percorrere 100 chilometri con un litro di carburante.
Uno dei fiori all’occhiello della produzione industriale “verde” italiana è rappresentato dai biocombustibili di seconda generazione, quelli, cioè, derivati non più da mais o canna da zucchero, ma da colture non alimentari. L’azienda Mossi&Ghisolfi, di Tortona (Piemonte), ha recentemente sviluppato una tecnologia all’avanguardia per ricavare benzina da biomasse non edibili, come la paglia del riso, gli scarti di produzione della canna da zucchero e la canna comune. A Crescentino, in provincia di Vercelli, è ora attivo il primo impianto per la produzione del biocarburante, alla cui produzione hanno contribuito 10 università italiane e 100 cervelli di altrettanti ricercatori, quasi tutti trentenni. Soltanto questo progetto porterà alla creazione di oltre 150 posti di lavoro, la produzione di 42mila tonnellate di biocarburante e una riduzione delle emissioni di CO2 di circa 70mila tonnellate ogni anno.
Quello del bioetanolo di seconda generazione è un settore in cui il nostro paese ha buone possibilità di primeggiare sul piano dei brevetti. È infatti necessario trovare soluzioni realmente innovative che permettano di utilizzare le biomasse verdi senza sottrarre preziosi terreni agricoli alle colture alimentari e senza favorire la deforestazione. Il mondo della ricerca è per queste ragioni ancora il protagonista di questo settore produttivo. Per chi volesse intraprendere questa strada, in Italia ci sono diversi centri di riferimento: dal CRIBE (Centro di Ricerca Interuniversitario Biomasse da Energia) della Scuola Superiore Sant’Anna e dell’Università di Pisa, al Centro di Ricerca sulle biomasse dell’Università di Perugia. Le lauree ideali per tentare un dottorato di ricerca nel settore? Biotecnologia, Chimica industriale, Agraria.
La strada della ricerca dovrebbe in futuro sanare, e le premesse sono promettenti, un conflitto importante che riguarda i biocarburanti. Da un lato, infatti, spiccano gli obiettivi europei che chiedono di raggiungere il 10% di fonti rinnovabili nel settore dei trasporti entro il 2020. Dall’altro vi sono i problemi legati al disboscamento delle aree da utilizzare per le colture intensive di biomasse e lo sfruttamento di terre altrimenti dedicate alla produzione alimentare (soprattutto terreni agricoli dei Paesi in via di sviluppo). Fattori per cui i biocarburanti di prima generazione sono accusati da molte ong e organizzazioni ambientaliste di aggravare la già precaria situazione alimentare del terzo mondo.