Il sistema che dovrebbe difendere Venezia è l’emblema di un modello industriale e di sviluppo che non funziona più e non ha gli anticorpi per difendersi da corruzione e ritardi. E che nel caso specifico, visti i cambiamenti climatici, servirà pure a poco.
Dal sito della rivista WIRED
Testo di Simone Cosimi
13 NOV, 2019
Il Mose, il capolavoro ingegneristico progettato negli anni Ottanta che doveva essere pronto tre anni fa per proteggere Venezia e invece stiamo ancora aspettando, è forse il più efficace paradigma di come (non) funzionino le cose in Italia. Per un’impresa che riesce ce ne sono dieci che accumulano negli anni centinaia di varianti, aumento dei costi, indagini e arresti di peso perché si fanno magneti della corruzione e delle mafie. E ancora costosi salvataggi pubblici e ritardi infiniti, fino a perdere in gran parte il senso della loro stessa costruzione, del loro stesso ruolo per la vita di tutti gli italiani.
Sul Mose, un sistema di 78 paratoie divise in quattro schiere che dovranno sollevarsi elettricamente quando si preveda una previsione di marea superiore ai 110 centimetri, si è raccolto tutto questo in modo micidiale: il progetto in un’altra epoca (l’opera nacque ufficialmente il 29 novembre 1984, con la seconda Legge speciale per Venezia, il progetto venne approvato nel 1992 con Giulio Andreotti presidente del Consiglio), dieci anni di revisioni e contestazioni fino al via libera definitivo del 2003 con Silvio Berlusconi, un altro decennio per il test sulla prima diga mobile alla bocca di porto di Lido-Treporti e in quello stesso periodo una clamorosa indagine per frode fiscale e corruzione che ha condotto fra l’altro al patteggiamento dell’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan, il commissariamento finale che sembrerebbe poter condurre infine alla consegna fra un paio di anni, il 31 dicembre 2021. Se tutto andrà bene.
Intanto il gioiello sull’acqua, Venezia, luogo unico al mondo, affoga sotto una marea da record – 187 centimetri nella notte fra il 12 e il 13 novembre – danneggiando lo scrigno inestimabile della Basilica di San Marco, sommergendo isole, allagando calli, devastando mezzi, uccidendo persone, isolando i residenti. Insomma, una mezza Apocalisse.
Verrebbe da ripetere anche, con le dovute proporzioni a seconda dei contesti, la stessa formula per infinite altre situazioni: e intanto le persone muoiono a Taranto, mentre l’ex Ilva affoga nell’indecenza di un colosso che tutto pensa di potersi permettere e nell’immobilismo di una serie di esecutivi che nulla hanno fatto per imporre una transizione ambientale graduale e cercare di tutelare i posti di lavoro. E intanto Alitalia perde un milione di euro al giorno e tra aumenti di capitale, contributi e garanzie è costata al Paese oltre 10 miliardi di euro in quarant’anni, trasformandola da un vanto internazionale a un carrozzone con grandi professionalità ma ormai da anni senza più un modello di business chiaro. E intanto pure la Gronda di Genova, il potenziamento del nodo autostradale intorno al capoluogo ligure di cui si parla anche in questo caso dagli anni Ottanta, oggetto di numerose proposte, approvata nel 2017 (già due anni fa) dall’ex ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e ora fondamentale dopo il crollo del Ponte Morandi nel 2018, è ferma nel pantano. Si potrebbe proseguire a oltranza e anche le opere meglio riuscite, vedi l’Expo di Milano, non sono rimaste indenni da inchieste e arresti.
Lo scenario devastante e doloroso che abbiamo di fronte agli occhi in queste ore aggiunge tuttavia un elemento al contesto: il riscaldamento globale. Dall’inizio del millennio situazione come queste, che pure si erano verificate in precedenza – il record è del novembre 1966 con 194 centimetri – si sono ripresentate con maggiore frequenza a Venezia. I rapporti periodici dell’Intergovernmental Panel for Climate Change delle Nazioni Unite allargando d’altronde il tiro e mettono in allerta sull’innalzamento del livello dei mari ormai da anni: in uno degli ultimi, quello pubblicato appena lo scorso 25 settembre, vengono messe sotto la lente circa 7mila ricerche scientifiche. Il risultato spiega che la soglia continua ad aumentare, lo scioglimento dei ghiacci è sempre più rapido e molte specie si stanno spostando – fra quelle specie ci sarà a breve anche la nostra. Le ragioni sono legate alle attività umane e alle emissioni che aggravano l’effetto serra. Non solo lo scioglimento delle calotte polari: anche l’aumento della temperatura delle masse oceaniche ha condotto a un’espansione del volume dei mari, e dunque – di nuovo – a un aumento dei livelli.
Si potrebbe continuare. Il rapporto, ci basti questo, spiega che entro la fine del secolo potrebbe verificarsi un innalzamento fino a 1,1 metri, almeno nello scenario peggiore, rivisto al rialzo di circa 10 centimetri rispetto a precedenti documenti simili. Le conseguenze sono incalcolabili e fino a qualche tempo fa erano meno visibili. Ora le abbiamo davanti nel dramma di quel delicato ecosistema lagunare dal quale non siamo riusciti neanche a tenere fuori le grandi navi da crociera: l’inabitabilità di infiniti tratti di coste mondiali, le migrazioni climatiche a cui saranno condotti milioni di persone, eventi atmosferici inattesi e violentissimi come uragani e tifoni che aggraveranno quell’innalzamento spingendo le acque ancora più in profondità sulla terra, senza contare le conseguenze in termini di attività produttive come l’agricoltura.
Ecco dunque che i ritardi infiniti del Mose, e perfino le polemiche di queste ore (sacrosante, ci mancherebbe, per un’opera costata circa 8 miliardi in cantiere da quasi trenta e non ancora conclusa), assumono una luce grottesca, quasi ridicola, piccolissima rispetto alle sfide epiche che abbiamo di fronte: abbiamo lavorato poco e male, perdendoci nelle solite mangiatoie politico-industriali, su un sistema che potrà difenderci da maree alte fino a tre metri quando nei prossimi ottant’anni la sua efficienza, con un innalzamento simile dei livelli stimato in oltre un metro, potrebbe essere dimezzata se non ininfluente.
Ha ragione Greta Thunberg: quella contro i cambiamenti climatici, così come quella destinata alla costruzione di nuovi modelli produttivi sostenibili (vedi ancora Ilva e non solo) è una corsa contro il tempo. E l’Italia sta ancora concludendo un progetto approvato da Andreotti, in un mondo che non c’è più.