Marino Gatto – Renato Casagrandi. Politecnico di Milano – Dispense del corso di Ecologia 2003
Il processo di perdita di biodiversità
Sebbene lo studio delle molteplici forme viventi sulla Terra abbia radici molto lontane nel tempo, tuttavia è recentemente che questo tema ha acquistato un’importanza fondamentale dovendo l’umanità affrontare con urgenza il problema della perdita di biodiversità. La biodiversità si trova, infatti, ora seriamente minacciata essendo molte specie di animali e di piante ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione. L’estinzione è un processo naturale ma ora, a causa delle attività umane, sta avvenendo molto più rapidamente che in passato. Sebbene sia difficile valutare la velocità con cui avviene questo processo, anche per la difficoltà di stimare il numero di specie attualmente presenti sulla terra, tuttavia la comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che il tasso attuale di estinzione è 100-1000 volte superiore a quello precedente la comparsa dell’uomo. Moltissime sono le specie minacciate e alcuni scienziati sostengono che il 10-20% delle specie attualmente viventi sul pianeta si estingueranno nei prossimi 20-50 anni.
Generalmente quando si parla di specie estinte o a rischio di estinzione il pensiero va a specie esotiche dal fascino indiscusso quali il rinoceronte nero, l’elefante africano, il panda gigante, il dodo. Tuttavia anche nel nostro territorio nazionale molte sono le specie che sono attualmente minacciate di estinzione o lo sono state nel passato. Tra queste vale la pena di ricordare il lupo, la lince, l’orso bruno, lo stambecco, il cervo sardo, la foca monaca, la lontra, l’aquila reale, il gipeto, il grifone, il gallo cedrone, la starna.
In particolare, la starna (Perdix perdix), una delle specie più pregiate di selvaggina stanziale presente in Europa e in Nord America, ha subito negli ultimi 60 anni un drammatico declino in tutto il suo areale di distribuzione. La consistenza della specie è passata da un totale di 110 milioni di capi negli anni ’40 a circa 25 milioni nel 1986. Nella Lista Rossa dei vertebrati italiani la starna risulta specie estinta. I fattori che hanno portato a questa impressionante contrazione della specie sono da ricercarsi principalmente nell’alterazione del suo habitat e, in Italia, nel prelievo venatorio. La specie era principalmente legata, sia in pianura che in collina, alle aree coltivate a cereali (soprattutto frumento, orzo e avena) caratterizzate da piccoli appezzamenti e dalla presenza di bordi erbosi e cespugliati. I cambiamenti più dannosi per la specie sono risultati la trasformazione delle colture cerealicole, la meccanizzazione dell’agricoltura, il massiccio uso di pesticidi e insetticidi. Questi ultimi, in particolare, diminuendo la presenza di insetti, causano un notevole aumento della mortalità dei pulcini che si vedono ridotta quella che costituisce la loro risorsa alimentare principale nei primi 30 giorni di vita. Le pratiche di sfalcio, eseguite ora mediante rotofalciatrici, causano molto spesso la distruzione dei nidi e la morte diretta di individui sia adulti che giovani. A queste alterazioni dell’habitat, si è aggiunta una notevole pressione venatoria a cui la specie è risultata particolarmente sensibile e che, quindi, ne ha decretato la fortissima contrazione.
Un’altra specie a fortissimo rischio di estinzione è la foca monaca (Monachus monachus), un mammifero costiero, lungo fino a due metri e mezzo e pesante fino a quattro quintali, che vive di caccia immergendosi fino a 20 metri di profondità. Attualmente la popolazione mondiale è stimata intorno a 500 individui di cui circa 300 vivono nel Mediterraneo. Se fino a qualche decennio fa non era molto strano incontrare una foca lungo le coste italiane, oggi è praticamente impossibile. Qualche esemplare vive ancora lungo le coste sarde e rarissimi avvistamenti sono avvenuti nelle isole toscane, nelle Egadi, nel Salento e a Pantelleria. Popolazioni più consistenti sopravvivono invece in alcune isole della Grecia e in pochissime altre località del Mediterraneo. Il declino della specie è stato determinato, innanzitutto, dall’intensa caccia effettuata sia per motivazioni culturali che per limitare i danni causati dalla specie agli attrezzi da pesca. Altri importanti fattori di minaccia sono legati al sovrasfruttamento delle risorse ittiche, alla forte presenza antropica vicino ai siti di riproduzione e di sosta, e, possibilmente, all’accumulo di inquinanti. Nella Lista Rossa dei vertebrati italiani la foca monaca risulta in pericolo in modo critico ma, purtroppo, la scarsa conoscenza biologica di questa specie ostacola ancora una corretta gestione della specie e qualsiasi piano di recupero.
Una specie, in passato abbondantemente diffusa nelle aree densamente boscate di tutta la penisola italiana e ora piuttosto rara, è l’orso bruno (Ursus arctos). Attualmente la specie è presente unicamente in tre aree geografiche separate tra loro: in Abruzzo con una popolazione di 40-80 capi; nel massiccio dell’Adamello in Trentino Occidentale con una consistenza ridottissima ma in via di ampliamento grazie all’immissione di capi provenienti dalla Slovenia; nelle Alpi orientali dove è ricomparso recentemente giungendo spontaneamente attraverso il confine con l’Austria e la Slovenia. La progressiva scomparsa dell’orso bruno è avvenuta in concomitanza con la crescita della popolazione umana. Progressive opere di deforestazione e di trasformazione agricola del territorio hanno, infatti, causato la riduzione e la frammentazione dell’habitat. Tuttavia, è la persecuzione diretta della specie, operata anche illegalmente e con ogni mezzo, che ha accelerato il processo di contrazione dell’areale e ne ha decretato l’estinzione su gran parte del territorio nazionale. Nella Lista Rossa dei vertebrati italiani l’orso bruno alpino risulta in pericolo in modo critico. Tuttavia, la ricolonizzazione spontanea delle Alpi orientali e i ripopolamenti pianificati nel massiccio dell’Adamello accompagnati da una razionale politica di tutela, lasciano sperare una possibilità di ripresa della specie.
Le minacce alla biodiversità
La causa principale di questa allarmante alterazione della diversità biologica della Terra è l’influenza dell’uomo sull’ecosistema terrestre a livello globale. L’uomo ha alterato profondamente l’ambiente trasformando il territorio, modificando i cicli biogeochimici globali, sfruttando direttamente molte specie tramite la caccia e la pesca e aumentando la possibilità di trasferimento degli organismi viventi da una zona all’altra del pianeta.
La Tab. seguente riporta le cause di estinzione o di minaccia per le specie di avifauna presenti sul nostro pianeta. Tra queste le più importanti sono la distruzione dell’habitat, l’introduzione di specie esotiche e il prelievo venatorio. In particolare, la perdita di habitat è di gran lunga il maggior pericolo per le specie a rischio di estinzione. Un dato non confortante riguarda l’ignoranza dei fattori che hanno portato all’estinzione di più di un terzo delle specie di avifauna scomparse finora. Anche uno studio condotto su gran parte delle specie minacciate negli Stati Uniti (riassunto in Tab. 4) ha individuato nella degradazione e nella distruzione degli habitat le principali minacce alla biodiversità, seguite dalla competizione e dalla predazione con specie non autoctone. Grande importanza assume anche l’inquinamento. Le attività umane hanno, infatti, alterato profondamente i cicli biogeochimici fondamentali al funzionamento globale dell’ecosistema. Fonti d’inquinamento sono, oltre alle industrie e gli scarichi civili, anche le attività agricole che impiegando insetticidi, pesticidi e diserbanti alterano profondamente i suoli. A questo proposito va ricordato il fenomeno della biomagnificazione, che consiste nell’amplificazione della concentrazione di sostanze tossiche all’interno delle reti trofiche dai livelli più bassi a quelli più elevati. Conseguenza di questo processo è l’accumulo di notevoli quantità di sostanze chimiche nocive (in particolare metalli pesanti) negli organismi che si trovano in cima alla catena trofica (rapaci, grandi carnivori).
Specie estinte | Specie minacciate | |
---|---|---|
Distruzione dell’habitat | 20% | 60% |
Introduzione specie esotiche | 22% | 12% |
Caccia | 18% | 11% |
Cattura per commercio (animali domestici e zoo) | 1% | 9% |
Malattie | 1% | 1% |
Inquinanti e pesticidi | 0% | 1% |
Disturbo umano | 0% | 2% |
Uccisione accidentale | 1% | 1% |
Causa sconosciuta | 37% | 3% |
Un’ulteriore causa di minaccia per molte specie è costituita da un eccessivo prelievo ittico e venatorio. Tale prelievo può costituire la causa prima oppure aggravare situazioni già a rischio per la degradazione degli habitat. Le specie più minacciate dalla caccia e dalla pesca sono, oltre quelle la cui carne è commestibile (tipicamente la selvaggina e gli stock ittici), anche quelle la cui pelle e le cui corna, tessuti e organi hanno un alto valore commerciale (come l’elefante dalle cui zanne si ricava l’avorio o il rinoceronte al cui corno vengono attribuite inesistenti proprietà afrodisiache). La caccia e la pesca non compromettono sempre la diversità di un ecosistema ma divengono seria minaccia di estinzione di una specie quando la sfruttano eccessivamente, cioè quando il tasso di prelievo è maggiore del tasso di rinnovamento della specie.
Nel nostro paese e in paesi confinanti il prelievo eccessivo ha rappresentato in passato per la fauna terrestre il fattore fondamentale di declino di molte specie. Tuttavia, la continua riduzione del numero di cacciatori, passati da circa un milione e settecentomila nel 1980 a poco meno di un milione attualmente, e la politica di protezione nei riguardi di molti mammiferi e uccelli ha diminuito l’importanza del prelievo come fattore di declino per la fauna terrestre. Non così si può dire per quanto riguarda la fauna acquatica italiana, in cui l’attività di prelievo è prevalentemente di tipo commerciale invece che amatoriale. La regolazione della rimozione della biomassa degli stock ittici e delle popolazioni di crostacei e molluschi si presenta ancora problematica.
Alterazione, perdita e frammentazione degli habitat
Una delle principali minacce per la sopravvivenza di molte specie è l’alterazione, la perdita e la frammentazione dei loro habitat causata dai profondi cambiamenti del territorio condotti ad opera dell’uomo in conseguenza dell’esplosione demografica, dello sviluppo industriale, dell’estensione della rete dei trasporti e dell’industrializzazione dell’agricoltura. Nell’ultimo secolo i maggiori cambiamenti dell’uso del suolo hanno riguardato l’aumento delle superfici per l’agricoltura e per l’allevamento, lo sviluppo delle aree urbane e commerciali, il massiccio disboscamento, l’ampliamento delle reti stradali e delle relative infrastrutture, la costruzione di impianti idroelettrici, lo sviluppo della rete idrica e delle opere idrauliche, la cementificazione dell’alveo dei fiumi, lo sfruttamento dei giacimenti del sottosuolo, la costruzione di infrastrutture per le attività ricreative e sportive.
In seguito a queste trasformazioni, gli ambienti naturali vengono distrutti, alterati e parcellizzati, causando la perdita e la frammentazione degli habitat. Se il concetto di perdita di habitat risulta intuitivo, il fenomeno della frammentazione va invece approfondito. Con questo termine si indica il processo di parcellizzazione di un territorio in sottoaree tra loro parzialmente connesse o totalmente isolate, così che gli habitat adatti ad una specie risultano distribuiti sul territorio a “macchia di leopardo”. La frammentazione è dovuta sia alla perdita di habitat originari che alla costruzione di barriere (quali strade, linee elettriche, canali artificiali e impianti sciistici) che impediscono il libero movimento degli animali all’interno del territorio.
Nello studio del fenomeno della frammentazione è utile introdurre il concetto di patch (termine inglese che vuol dire “chiazza”), con il quale si intende un’area che presenta condizioni ambientali omogenee. La frammentazione, quindi, ha l’effetto di ridurre le dimensione dei patches e aumentare la distanza, e quindi l’isolamento, tra patches simili. Questo processo può anche modificare la qualità degli habitat rimasti e aumentare il disturbo causato da attività antropiche. Patches di ambienti naturali di per sé non alterati ma circondati da paesaggi modificati dall’uomo possono risultare non più adatti per certe specie.
La conseguenza principale della frammentazione degli habitat naturali è la suddivisione della popolazione originariamente distribuita su tutto il territorio in sottopopolazioni in scarso contatto fra loro, ciascuna occupante un solo patch o pochi patches vicini. Queste sottopopolazioni sono ovviamente meno consistenti di quella originale e risultano, quindi, più vulnerabili alle fluttuazioni climatiche naturali, ai fattori di disturbo antropico, a possibili epidemie e al deterioramento genetico dovuto a inincrocio. Inoltre, in ambiente frammentato, l’habitat di una specie risulta maggiormente a contatto con habitat di altre specie e questo provoca l’aumento dei tassi di predazione, di competizione, di parassitismo. In sostanza ciascuna di queste sottopopolazioni è sottoposta ad un maggior rischio di estinzione e l’assenza di contatto tra i vari patches impedisce o rallenta la ricolonizzazione di un area in cui la popolazione si sia estinta. La specie corre perciò il rischio di sparire da un numero sempre maggiore di patches finché le probabilità di ricolonizzazione diventano praticamente nulle e la specie si può considerare estinta su tutto il territorio.
Un territorio frammentato risulta per certi aspetti simile a un arcipelago: i patches adatti ad una certa specie sono simili a isole e l’ambiente circostante, meno ospitale, è simile all’Oceano. Come ha acutamente notato Levins, le cime delle montagne, i tronchi caduti, le chiazze di vegetazione o, meno intuitivamente, le regioni di temperatura o umidità ottimale per una specie, sono tutte isole per gli organismi appropriati. In tali frammenti valgono allora le considerazioni che si sono fatte in precedenza per le isole: dato l’esiguo numero di individui che compongono le popolazioni locali, è facile che si inneschino dei meccanismi di tipo effetto Allee, che vi sia inbreeding e che sia elevata la probabilità di estinzione della popolazione locale a causa di eventi sfavorevoli del tutto casuali (stocasticità demografica). Nello studio della frammentazione, come confermato da vari studi sul campo, può quindi essere utile ricorrere alla teoria della biogeografia delle isole. In particolare, patches con aree minori sono in grado di ospitare un minor numero di specie (effetto area). Questo comporta che la diminuzione delle dimensioni di un patch per perdita, alterazione o frammentazione di habitat ha come inevitabile conseguenza l’estinzione delle specie che necessitano di spazi vitali maggiori alla dimensione del patch e, quindi, la diminuzione del numero di specie in esso presenti. Anche l’effetto distanza riveste una notevole importanza in ambiente frammentato. Il tasso di colonizzazione di un patch risulta, infatti, dipendere dalla sua distanza dagli altri patches e, quindi, un patch più isolato ha più difficoltà ad essere raggiunto e ricolonizzato.
Nell’applicare la teoria della biogeografia delle isole allo studio di ambienti frammentati bisogna però tenere conto di un’importante differenza tra le due situazioni. Infatti, mentre la teoria di MacArthur e Wilson prevede l’esistenza di un serbatoio di specie esterno al sistema (la terraferma) da cui vi è una costante migrazione di specie verso le isole, nel caso di habitat frammentato non esiste alcuna sorgente di specie esterna al sistema e i fenomeni di dispersione (immigrazione e emigrazione) riguardano solo le specie presenti nei diversi patches
Un ulteriore problema che ha rilevanza nella frammentazione di un’area in sottoaree è l’aumento della lunghezza totale dei confini e l’aumento, al diminuire dell’area totale di un patch, della percentuale dell’area compresa nella fascia `penetrabile’ da altre specie. Da quanto detto, risulta evidente che le specie soggette ad un maggior rischio di estinzione in un paesaggio frammentato (o molto più frammentato di quello originario a cui si erano adattate) sono quelle che necessitano di patches più ampi, che hanno difficoltà a emigrare e che risentono maggiormente della presenza di confini.
Lo studio del fenomeno della frammentazione risulta molto complesso soprattutto per la difficoltà di capire come e quanto la frammentazione alteri il funzionamento dell’ecosistema. L’iniziale distruzione degli habitat porta infatti all’immediata perdita di qualche specie, ma la maggior parte delle estinzioni si verificano molto tempo dopo. Gli effetti della frammentazione si riflettono quindi sullo stato di salute di una popolazione anche molti decenni dopo l’iniziale trasformazione dell’ambiente.
Introduzione di specie esotiche e di organismi geneticamente modificati
Un fattore, spesso trascurato, di declino e di estinzione di molte specie è l’introduzione in un territorio di specie alloctone, cioè di specie che sono originarie di altre aree geografiche e che, quindi, non si sono adattate, attraverso il processo di selezione naturale, all’ambiente nel quale vengono immesse. È importante tenere presente che le specie non solo si sono evolute nel corso di milioni di anni, ma si sono coevolute, ovvero si sono adattate reciprocamente in maniera da coesistere all’interno di determinati territori caratterizzati da specifiche condizioni fisiche, chimiche, climatiche, vegetazionali. L’introduzione di specie alloctone rappresenta sempre un pericolo. È stato valutato che circa il 20% dei casi di estinzione di uccelli e mammiferi è da attribuirsi all’azione diretta di animali introdotti (soprattutto mammiferi). Ciò può essere dovuto a diverse cause: alla competizione per risorse limitate, alla predazione da parte della specie introdotta e alla diffusione di nuove malattie e parassitosi. Inoltre non bisogna trascurare i danni che molte specie introdotte possono arrecare alla vegetazione naturale, alle coltivazioni e alla zootecnia. Purtroppo in Europa il problema delle introduzioni di specie alloctone è stato trattato in passato con molta superficialità. Due casi sono emblematici: quello della vongola verace orientale, o vongola filippina (Tapes philippinarum), che ha portato in molte zone alla scomparsa della specie autoctona (Tapes decussatus), e quello dello scoiattolo grigio (Sciurus carolinensis), di importazione nordamericana, che sta soppiantando lo scoiattolo rosso europeo (Sciurus vulgaris).
Un ulteriore problema per la conservazione della biodiversità è rappresentato dall’introduzione nell’ambiente di organismi geneticamente modificati. Un organismo geneticamente modificato (OGM) o transgenico è un organismo nel cui corredo cromosomico è stato introdotto, tramite le tecniche dell’ingegneria genetica, un gene estraneo prelevato da un organismo donatore appartenente a diversa specie vivente, anche molto distante dal punto di vista della classificazione tassonomica dalla specie “ospite”. Per tale via si conferisce all’organismo la caratteristica desiderata, come ad esempio nel caso dei vegetali, la resistenza agli erbicidi o a determinati insetti nocivi.
Questa tecnica viene applicata correntemente per molte specie coltivate (quali soia, mais, patate, tabacco, cotone) e per alcune specie forestali (pioppi ed eucalipti). I primi vegetali transgenici sono stati immessi sul mercato americano intorno alla metà degli anni ’90 e nel 1996 hanno fatto il loro ingresso anche sul mercato europeo. Mentre nel 1996 l’area globale occupata da colture transgeniche era soli 1,7 milioni di ettari, nel 2000 era già di 39,9 milioni di ettari. Il 71% di quest’area era occupata da colture resistenti agli erbicidi (una caratteristica che permette di ridurre i costi della manodopera in quanto gli erbicidi vengono spruzzati su larga scala), il 22% da piante che producono un insetticida naturale (una caratteristica che evita di dovere spruzzare insetticidi chimici) e il rimanente 7% da varietà di cotone e grano che hanno ambedue le proprietà.
C’è un acceso dibattito politico e scientifico relativo ai rischi e ai benefici, sia sanitari sia ambientali, legati alla diffusione degli OGM. In particolare, oltre agli effetti temuti sulla salute umana (quali gli aumenti di allergie), si teme che l’ambiente possa risentirne notevolmente in termini di inquinamento genetico di specie naturali, di trasmissione ad erbe infestanti della resistenza agli erbicidi, di evoluzione di parassiti più resistenti, di permanenza di tossine nel terreno, di aumento dell’uso di erbicidi, di scomparsa di alcune specie di insetti e, quindi, di riduzione della biodiversità. Il rischio è, quindi, legato al fatto che vengano prodotti e liberati nell’ambiente organismi viventi “nuovi”, che in natura non avrebbero mai potuto evolversi (si pensi alle piante modificate con geni provenienti da vegetali di specie diverse, o addirittura da animali) e che perciò l’ambiente non è preparato ad accogliere. Per i sostenitori degli OGM, invece, i benefici derivanti dall’uso di alimenti transgenici consisterebbero nella riduzione dell’uso di pesticidi chimici, nell’aumento della produttività dei raccolti, nel più facile controllo delle erbe infestanti e, quindi, in un significativo miglioramento ambientale. Inoltre, gli OGM potrebbero venire impiegati per migliorare la salute umana attraverso l’aumento del contenuto di vitamine e minerali nell’alimentazione di base, l’eliminazione dei più comuni allergeni, lo sviluppo di proteine di alta qualità e l’inserimento di vaccini negli alimenti. Fino ad ora non esistono evidenze scientifiche che mostrano chiaramente gli effetti a lungo termine dell’uso degli OGM, ma, d’altra parte, questi effetti potrebbero essere visibili solo tra qualche anno quando potrebbe essere troppo tardi per porvi rimedio.
Il valore della biodiversità e le conseguenze della sua perdita
Le profonde alterazioni della diversità del pianeta provocate, sia a livello locale che globale, dallo sviluppo umano hanno importanti conseguenze sull’ecosistema e sulla società. Pensare che l’abbondanza di biodiversità riguardi solo il biologo appassionato di specie rare, o il ricercatore, è un grave errore. Garantire un’elevata biodiversità è problema che interessa la qualità della vita e la sopravvivenza di ciascuno di noi. La biodiversità ha, innanzitutto, un valore diretto costituito dai beni che fornisce alla società e che vengono costantemente sfruttati tramite l’agricoltura, la pesca, la caccia e la raccolta del legname. L’alterazione della funzionalità degli ecosistemi ha quindi un impatto economico: variazioni della diversità biologica possono direttamente ridurre le risorse di cibo, di acqua, di carburante, di materiali da costruzione, e anche di risorse genetiche o di medicinali. Le piante, ad esempio, costituiscono un bene particolarmente prezioso per la salute umana, poiché producono un’infinità di molecole che trovano largo impiego in farmacologia. Per rendersi conto di questa importanza si pensi che 21�000 sono le specie di piante incluse nella lista della Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization – WHO) come piante che hanno un uso medico e che negli Stati Uniti quasi l’80% delle principali prescrizioni mediche traggono origine da organismi viventi (di queste 74% da piante, 18% da funghi, 5% da batteri, 3% da vertebrati). Quanta ricchezza farmacologica sia contenuta nelle piante ce lo suggeriscono anche le medicine tradizionali con cui si curano circa 3 miliardi di persone ossia l’80% della popolazione dei paesi in via di sviluppo. Esse fanno ampio uso delle proprietà curative di molti vegetali: la raffinata medicina popolare cinese, ad esempio, utilizza piante note in quel solo paese.
È chiaro che la perdita di biodiversità pregiudica l’opportunità futura di conoscere e derivare nuovi benefici per la salute umana dalle specie estinte e che, quindi, la conservazione di un’elevata biodiversità può risultare determinante per la cura di malattie ora incurabili. Ad esempio, in una pianta del Madagascar, paese caratterizzato da un’elevatissima biodiversità e dalla presenza di specie uniche al mondo, sono state scoperte le molecole di vinblastina e vincristina che hanno consentito, a partire dal 1971, di elevare notevolmente l’efficacia della chemioterapia contro una forma di leucemia infantile portando così la sopravvivenza oltre i cinque anni d’età dal 10 al 90%. Purtroppo la fauna e la flora del Madagascar sono ormai soggette a sistematica distruzione.
Le piante costituiscono una fonte di cura delle malattie umane da millenni e molte delle medicine moderne sono state scoperte esaminando l’uso di queste piante nelle medicine tradizionali. L’aspirina, la medicina più venduta al mondo, ne è un esempio. La corteccia di salice Salix alba, albero che cresce nelle aree umide e lungo i fiumi in Europa, è stata usata per secoli dagli europei per curare infiammazioni, dolori e febbre. Nel XVIII secolo questa informazione fu documentata formalmente dalla Royal Chemical Society e alla fine del XIX secolo una casa farmaceutica tedesca (la Bayer) riuscì a sintetizzare il componente chimico contenuto nella corteccia del salice e a produrre e commercializzare l’attuale aspirina. Anche l’uso del chinino, uno tra i farmaci più utilizzati per la lotta contro la malaria, era conosciuto da secoli in Sud America dai guaritori tradizionali. Esso deriva dalle piante Cinchona calisaya e C. officinalis che, portate in Spagna nel corso del 1500, sono state studiate approfonditamente per individuarne il componente attivo con proprietà antimalariche.
Ma la biodiversità ha anche, e soprattutto, un altissimo valore indiretto costituito dai servizi garantiti dalla funzionalità degli ecosistemi. Le popolazioni naturali infatti, interagendo tra loro, formano ecosistemi che costituiscono il principale meccanismo di riciclo di aria, acqua e nutrienti indispensabili per la vita sulla terra. La biodiversità ci fornisce quindi una serie di servizi che assicurano che l’aria sia pulita e che l’acqua sia potabile. Le foreste e gli oceani, ad esempio, assorbono i sottoprodotti delle attività agricole e industriali rallentando l’accumulo nell’atmosfera di biossido di carbonio e di altri gas responsabili dell’effetto serra e del cambiamento globale del clima sulla terra. Fino a non molto tempo fa la presenza di questi ambienti naturali ha garantito una relativa stabilità del clima nel tempo permettendo l’evolversi della vita umana. Nel futuro però la continua distruzione di foreste e l’inquinamento delle acque e dell’aria potrà compromettere questa capacità di ‘stabilizzazione’ del clima.
Una maggiore biodiversità garantisce inoltre una minor probabilità di estinzione per ciascuna specie in caso di episodi critici. Gli ambienti caratterizzati da maggior eterogeneità genetica risultano infatti meno vulnerabili a epidemie e ad eventi estremi quali siccità, gelate ed alluvioni. Gli effetti della variazione della biodiversità risultano poi aggravati dal fatto che ogni specie, all’interno dell’ecosistema in cui vive, interagisce con le altre specie tramite relazioni di competizione, predazione, parassitismo. L’estinzione di una specie può, quindi, indirettamente alterare l’abbondanza di altre specie causando un ulteriore cambiamento nella composizione della comunità ecologica cui appartiene e aumentando la sua vulnerabilità a episodi critici. Non bisogna infine dimenticare che la biodiversità ha un importante valore ricreativo (si pensi alla crescente importanza dell’ecoturismo), culturale, intellettuale, estetico e spirituale, nonché un valore etico o esistenziale indipendentemente dal suo utilizzo.
Le conseguenze della perdita di biodiversità riguardano, quindi, non solo la qualità della vita ma la possibilità della vita stessa sulla terra. Sebbene alcuni meccanismi siano stati abbondantemente studiati e messi chiaramente in relazione con le attività umane, tuttavia molti altri necessitano ancora di essere compresi. L’aspetto più allarmante della perdita di biodiversità è rappresentato proprio dall’ignoranza sulle conseguenze ultime delle nostre azioni di danneggiamento degli ecosistemi e sulla loro reversibilità.
Conservare la biodiversità
La crisi causata dalla perdita di biodiversità ha dato origine negli anni ’50 ad un nuovo ramo della scienza, la biologia della conservazione, che, proprio per l’urgenza dei problemi posti, è uno dei campi di maggiore crescita della moderna ricerca scientifica. Si tratta di una disciplina applicata che integra i principi delle scienze naturali e sociali con l’obbiettivo di mantenere a lungo termine la biodiversità sulla Terra. La storia e la scienza hanno dimostrato che lo sfruttamento incontrollato o non pianificato correttamente delle risorse del pianeta è causa di alterazione degli ecosistemi. Occorre, quindi, necessariamente pianificare e gestire in modo responsabile e razionale il patrimonio ambientale per garantire la conservazione della vita sul nostro pianeta. Tale gestione deve far fronte ai problemi connessi alla conservazione delle specie già minacciate di estinzione, o che potrebbero esserlo nel futuro, tramite opportune misure quali l’istituzione di zone di protezione e di parchi naturali, la pianificazione di interventi di reintroduzione delle specie, la regolamentazione del prelievo venatorio e della presenza antropica sul territorio, la regolazione del commercio di animali.
La conservazione della biodiversità è un problema complesso sia perché le conoscenze relative alla biologia e all’ecologia delle singole specie e alle interazioni tra di esse e con l’ambiente in cui vivono sono spesso scarse, sia perché si trova al centro di una molteplicità di interessi economici diversi. Tuttavia, essa è l’unica strada percorribile per garantire la persistenza della vita sul nostro pianeta.