Riflessioni su uno studio che analizza le possibili influenze delle piattaforme che compongono l’ecosistema della sharing economy nella struttura delle città (ed in particolare delle grandi città e delle città storiche e d’arte) e sulle prospettive del governo di questi processi. Un futuro caratterizzato dalla complessità, da opportunità e rischi e dal bisogno di sperimentare percorsi inediti ed originali di governo.
Dal sito CHE FARE
L’airificazione delle città. Airbnb e la produzione di …
di Cristina CapineriStefano PicasciaAntonello Romano
l LADEST (Laboratorio dati economici, storici, territoriali) dell’Università di Siena ha studiato la penetrazione di AirBnB in 13 città italiane e ha dimostrato quanto la distribuzione del reddito da affitto sia estremamente diseguale. L’uso di questa piattaforma digitale per gli affitti temporanei sta trasformando il tessuto urbano e la ridistribuzione della ricchezza.
Tra le piattaforme che compongono l’ecosistema della sharing economy ce n’è una che, a differenza delle altre, che incidono principalmente sulla sfera sociale ed economica degli utenti, sembra essere in grado di produrre alterazioni profonde nella struttura stessa dello spazio fisico in cui opera. Si tratta di Airbnb.
Perfetta sintesi delle tendenze economiche del decennio, sharing economy e platform capitalism, Airbnb da un lato incoraggia gli utenti a mettere a valore beni del tutto o parzialmente inutilizzati, dall’altro trae il proprio profitto dall’intermediazione tra i partecipanti, in linea con l’estrattivismo digitale del capitalismo dei walled garden – da eBay a Facebook, Twitter, etc.
I beni da mettere a valore attraverso Airbnb sono ovviamente le abitazioni, o parti di esse, che gli host pubblicizzano sulla piattaforma: tre milioni nel mondo, Italia terza dopo USA e Francia per numero di annunci (nel 2017), con oltre 83.000 proprietari e 3.6 milioni di clienti all’anno.
Se la pratica di prendere in affitto una casa privata o una stanza per un breve periodo di vacanza è sempre esistita, la sua accelerazione elettronica, come forse l’avrebbe definita Marshall McLuhan, sta producendo effetti dirompenti in giro per il mondo: impennata dei prezzi degli affitti a Berlino, crisi abitativa a Los Angeles, rivolte dei residenti a Barcellona. E anche quella che abbiamo chiamato “disneyficazione” in Italia.
Un fenomeno in realtà tutt’altro che nuovo per le città d’arte del nostro Paese: centri storici popolati sempre più da una popolazione variopinta e transeunte, e sempre meno da residenti stabili; attività commerciali che si rivolgono sempre più a questa popolazione a scapito di quella residente; ridicole caricature di “tipicità” e “tradizione” mai esistite spacciate a ogni angolo di strada a turisti dai gusti facili. La letteratura su questi temi è vasta, di recente il sociologo Giovanni Semi ha documentato come i centri storici delle città italiane, non solo quelle “d’arte”, siano sempre più luoghi adibiti alla vita notturna e al turismo e sempre meno luoghi di residenza stabile.
Distribuzione spaziale, dinamiche economiche
Il fenomeno non lo crea certo Airbnb, sembra anzi venire da molto lontano, a partire dall’evoluzione della forma urbana in Italia, con lo sprawl iniziato nel secondo dopoguerra e proseguito fino agli anni ‘90 attraverso varie ondate di speculazione edilizia, ma anche dal turismo di massa, dai voli low cost, dalle abitudini che cambiano, di cui Marco D’Eramo offre un excursus storico godibilissimo nel suo Il selfie del mondo.
Airbnb non crea il fenomeno bensì, attraverso un sistema facile e veloce per affittare un appartamento ai turisti, non fa altro che esacerbarlo e produrre delle dinamiche economiche potenzialmente esiziali per una città. Sembra documentato, infatti, che a una densità particolarmente alta di appartamenti offerti su Airbnb in una determinata zona corrisponda un innalzamento del costo degli affitti a lungo termine, il che contribuirebbe a disincentivare, quando non ad espellere, i residenti permanenti.
In Italia questa dinamica non è ancora stata dimostrata, ma è innegabile che ogni unità immobiliare su Airbnb corrisponde ad un appartamento in meno sul mercato degli affitti a lungo termine, ovvero un appartamento in meno potenzialmente occupato da residenti stabili. L’analisi dei dati raccolti sulla piattaforma offre uno sguardo sul fenomeno e dimostra che, nelle città italiane, la porzione del patrimonio immobiliare permanentemente impiegata nell’affitto a breve termine cresce da anni senza soluzione di continuità un po’ ovunque ed è fortemente concentrata proprio nei centri storici. Il grafico seguente (fig.1) riassume il numero di inserzioni su Airbnb nei centri storici di tredici città italiane, espresse come proporzione del totale delle unità immobiliari esistenti.
Fig.1 -Percentuale del patrimonio immobiliare (solo “case intere”) offerto su Airbnb nei centri storici (2015-2016)
Si scopre che un’ unità immobiliare su cinque nel centro di Firenze è permanentemente offerta su Airbnb in affitto a breve termine; quasi una su dieci nello sconfinato centro storico di Roma, così come a Venezia.
Uno dei paradossi della diffusione di Airbnb sarebbe dunque quello di invogliare i turisti a scegliere di alloggiare in un appartamento privato, invece che in un albergo, per immergersi nell’autenticità della cultura locale. Autenticità che, così facendo, contribuisce a distruggere, riempiendo le abitazioni dei centri storici di turisti e svuotandole di residenti.
In Italia dunque è nei centri storici che l’offerta si concentra maggiormente. Per rimanere a Firenze, nel centro storico (un’area di circa 5 Km2) si concentra il 63% di tutta l’offerta di alloggi Airbnb della città, e vi corrisponde il 72% della domanda (misurata tramite il numero di recensioni per ogni inserzione). Tuttavia i dati ci parlano anche di una tendenza del fenomeno ad allargarsi anche verso zone non immediatamente centrali. Tra il 2015 e il 2016 si è verificato un forte incremento fuori dai centri storici, per la prima volta a una velocità superiore rispetto al centro. La dinamica è quella della diffusione: il fenomeno dello short-term renting parte dal centro e si allarga verso aree più periferiche delle città. Può essere il segno di un alleggerimento della pressione sui centri storici, o semplicemente il segno della loro saturazione. In molti casi i listing periferici di Airbnb emergono in quartieri che sono, anche se in maniera diversa, divenuti attraenti in funzione di processi di riqualificazione urbana, del decentramento dei servizi (università, ospedali), della presenza di reti di trasporto veloci e così via.
Osservando la distribuzione della domanda e dell’offerta dal punto di vista spaziale, è possibile individuare una serie di configurazioni ricorrenti. Ad esempio, nel caso di Firenze, la distribuzione della domanda e dell’offerta seguono un modello accentrato molto semplice che risulta proporzionale alla distanza dal centro: all’aumentare della distanza dal centro, domanda
Fig.2 Distribuzione per area di censimento della offerta (1) e domanda (2) a Firenze (2016)
e offerta diminuiscono (fig.2). In altre città come Roma e Milano domanda e offerta aumentano, nell’arco di tempo considerato, anche al di fuori del centro storico (ad esempio nel quartiere dei Navigli e a Trastevere). In generale è possibile sintetizzare il fenomeno attraverso tre modelli spaziali: accentrato (es. Firenze); multipolare (es. Milano); gerarchico (es. Roma). (fig.3).
Fig.3 – Modello accentrato (es.Firenze), multipolare (es.Milano), gerarchico (es.Roma).
Produzione e riproduzione di ineguaglianza. Ovvero, come e dove sono distribuiti i benefici di Airbnb
Incrociando le inserzioni e le relative recensioni è possibile stimare il reddito annuo che ognuno degli host nelle tredici città italiane considerate potrebbe aver incamerato attraverso Airbnb. Si tratta di una stima estremamente prudente – abbiamo assunto che la permanenza media sia stata di sole 3 notti – ma quello che emerge è che l’ecosistema dell’Airbnb italiano è profondamente diseguale. Sarebbe un altro grande paradosso della piattaforma: a dispetto della retorica della “condivisione” i proventi sembrano concentrarsi nelle mani di pochi soggetti. Per rendere possibile il paragone tra le tredici città abbiamo calcolato l’indice di Gini relativo alla distribuzione degli introiti da Airbnb per ognuna delle città. L’ineguaglianza è estremamente alta in tutte le città ed è aumentata tra il 2015 e il 2016 in dieci città su tredici. Nella maggior parte delle città un piccolo numero di operatori che offrono decine di appartamenti arriva a conquistare anche i due terzi del totale dei proventi.
Tab. 1 – Indice Gini della distribuzione dei ricavi di Airbnb tra gli hosts.
La disuguaglianza è dunque molto alta, anche se i numeri sono, con ogni probabilità, drogati dalla presenza di un certo numero di grandi operatori che agiscono da intermediari per conto terzi. A Firenze i tre maggiori host offrono rispettivamente 162, 89 e 64 abitazioni. Si tratta evidentemente di agenzie, anche internazionali, che servono decine di proprietari. L’esistenza di questi soggetti dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che la piattaforma è ormai distante anni luce dal mito di fondazione dei due ragazzi col materassino gonfiabile in camera, e che il mercato è appetibile per agenti economici di una certa rilevanza. L’adozione entusiastica che si è registrata in Italia, poi, sembra una triste conferma del ruolo del nostro paese nell’economia continentale dopo la ristrutturazione post-industriale dell’ultimo decennio: quello di un gigantesco campeggio a cielo aperto.
In ogni caso, anche senza considerare la distribuzione tra host, la regola di Pareto dell’80/20 rimane valida anche considerando le sole inserzioni: il 20% delle abitazioni in offerta su Airbnb produce più dell’80% degli introiti totali. E quel 20% si trova, generalmente, nel centro storico di una città. Quella interpersonale, infatti, non è l’unica dimensione della disuguaglianza innescata dalla piattaforma. Il secondo livello è quello spaziale: la figura in basso (fig.4) mostra come il ricavo medio di una proprietà su Airbnb diminuisca al crescere della distanza dal centro città. Questa dinamica è coerente con quella evidenziata in altri paesi: uno studio canadese (Gibbs et al. 2018) mostra che ad ogni cinque chilometri di distanza in più dal municipio i prezzi diminuiscono dal 4% a Ottawa fino al 21% di Montreal. Ciò conferma che una quota molto elevata degli utili derivanti di Airbnb si concentra nelle aree centrali che, almeno alle nostre latitudini, corrispondono in genere a immobili più prestigiosi e proprietari generalmente più facoltosi. In altre parole, più soldi dove già ce ne sono di più.
Il terzo livello di disuguaglianza Airbnb lo condivide con tutto l’universo del platform capitalism. Le piattaforme, immateriali e ubiquitarie, in realtà un’origine, una materialità e un locus ben definiti l’hanno eccome. Generalmente corrispondono a un fazzoletto di terra intorno a San Francisco, California, dove si concentra quasi tutta l’élite della nuova economia, inclusi i nuovi miliardari, i vari Mark Zuckerberg e Elon Musk. Ogni volta che un friulano trascorre qualche giorno a Napoli nella casa di una signora che ha ristrutturato appositamente l’appartamentino della nonna al centro antico, una percentuale (sempre più alta, sembra) della piccola somma che l’uno verserà all’altra lascerà il nostro Paese per approdare nel luogo più ricco del mondo, nelle tasche di una serie di persone molto ricche, alimentando al tempo stesso la disuguaglianza globale e, in una interessante quanto ironica dimensione frattale, quella locale della Bay Area, a sua volta il luogo più diseguale degli stessi Stati Uniti.
Fig. 4 – Ricavi medi (stima) a distanze crescenti dal centro storico (2015)
Che fare?
Le principali città interessate dall’esplosione degli short term rentals in giro per il mondo hanno adottato approcci che vanno dal draconiano, come Berlino che ha limitato l’affitto turistico ad una sola stanza per casa, ad atteggiamenti più soft, come Amsterdam che ha posto un limite di 90 giorni all’anno per l’affitto a breve termine di proprietà residenziali. In Italia un certo numero di città ha siglato accordi con la piattaforma per la riscossione della tassa di soggiorno, trattenuta da Airbnb su ogni pernottamento e versata ai comuni, sostanzialmente assimilando gli appartamenti affittati attraverso Airbnb agli alberghi. Al tempo stesso è stata introdotta anche una sorta di cedolare secca del 21% da applicare a tutti i ricavi derivanti dalla piattaforma – assimilando così gli affitti a breve termine a quelli a lungo termine. Insomma, quello che l’Italia prova a fare è racimolare qualche soldo dal fenomeno in ogni modo possibile, mentre ha completamente rinunciato anche solo a tentare di governarlo. Eppure la natura della piattaforma, che dispone di dati aggiornati in tempo reale su tutte le stanze e abitazioni offerte, occupate e libere permetterebbe di sperimentare tecniche di pianificazione che potrebbero servire a estendere i benefici del turismo anche ad aree e categorie sociali che ne sarebbero esclusi.
Alcune proposte visionarie sono state avanzate per la città di Londra. Quattrone et al. propongono l’introduzione di diritti di “sharing” assegnati e revocati dinamicamente dall’amministrazione cittadina a chi sia interessato ad offrire i propri spazi ai turisti. Collaborando con la piattaforma l’amministrazione sarebbe in grado di indirizzare i flussi spostando i diritti di sharing da una zona all’altra della città, in modo da scongiurare la concentrazione di affitti turistici nelle stesse zone, e indirizzare un certo numero di turisti (e i relativi benefici economici) in zone che difficilmente questi sceglierebbero autonomamente.
Insomma, possibilità da esplorare ci sarebbero, con un atteggiamento né punitivo né predatorio da parte dell’Amministrazione pubblica che potrebbe provare a mettere la tecnologia al servizio del planning urbano.
Nulla del genere è allo studio in Italia, dove anzi è lecito ipotizzare che la tassazione al 21% finirà per impattare maggiormente sugli host che si trovano nella “coda lunga” dei ricavi e su coloro che offrono appartamenti o stanze fuori dal centro, meno profittevoli e quindi disincentivati a rimanere sul mercato. Di conseguenza il rischio è quello di favorire/accentuare una crescente hotellizzazione nelle aree del centro storico che rimarrebbero economicamente vantaggiose a differenza delle altre. L’unico effetto di tassare in maniera non progressiva un fenomeno, come si diceva, dai tratti estremamente diseguali potrebbe essere quello di rendere il sistema ancora più diseguale, e di aumentare ulteriormente l’offerta nei centri storici sempre più sotto pressione.