R. Staglianò intervista Alexander Nix, di Cambridge Analytica
Da Il venerdì di Repubblica DEL 16 MARZO 2018
«Così, con i social network, abbiamo fatto vincere Donald Trump».
Parla Alexander Nix, di Cambridge Analytica, che usa test psicologici e big data per convincere gli elettori. Ora sta lavorando anche per dei politici italiani. Chi? Segreto
Londra. Esistono tanti modi per dire la stessa cosa. Nel caso di uno spot politico testato su Facebook, oltre quattromila. Chiamatele Variazioni Trump. Ogni volta il messaggio veniva leggermente modificato, con una sintonia fine che si alimentava delle reazioni del pubblico. Se la versione 15, per dire, era condivisa il triplo di quella 27, perché perdere tempo con la seconda? E via perfezionando. Ovviamente ciò che va bene per uno non va bene per l’altro. Prendiamo il secondo emendamento, il diritto di portare armi, collante tradizionale dei Repubblicani statunitensi. «Se vogliamo fare breccia su un’elettrice coscienziosa e nevrotica, converrà mostrargli l’immagine di una rapina in casa, con tanto di mano minacciosa che spacca il vetro e lo slogan “Oltre che un diritto, una pistola è un’assicurazione sulla vita”» spiegava un impeccabile Alexander Nix, completo nero, camicia color ghiaccio e gemelli d’argento, dal palco del Concordia Summit di New York a settembre dell’anno scorso. «Se invece il bersaglio è un tipo tradizionalista, ma ben disposto verso il prossimo, funzionerà meglio la foto di nonno e nipote a caccia, con un claim tipo “Dal padre al figlio, sin dalla nascita della nostra nazione”».
Allora l’amministratore delegato di Cambridge Analytica (CA) aveva ancora bisogno di presentazioni e poteva vantare un miracolo minore. Aver estratto il bigotto texano Ted Cruz dalla mischia dei 17 sfidanti repubblicani e averlo trasformato, per un discreto numero di settimane, nell’unico credibile sfidante del controverso miliardario newyorchese. Risultato ottenuto, dietro parcella da tre milioni di dollari, mescolando sapientemente analisi psicologiche, big data e messaggi digitali personalizzati. «Un altro candidato sta impiegando il nostro metodo» aveva rivelato alla platea, senza svelarne il nome: «Vedremo tra sette mesi come sarà andata». Il finale è noto. E il quarantunenne seduto davanti a me, nell’ufficio tutto vetri a due passi da Oxford Circus, ha infine rivendicato il «ruolo centrale» del suo «rivoluzionario approccio» nella vittoria del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Il miracolo maggiore.
Sull’onda dell’entusiasmo si sta intestando meriti esorbitanti o sono stati davvero loro l’ingrediente magico? La premessa generale è antica, quasi delfica: conosci il tuo cliente. Sia che tu gli voglia vendere una saponetta o un politico. Grazie a internet, mentre ieri toccava immaginare a partire da pochi indizi, oggi basta mettere insieme le migliaia di tessere digitali che ognuno di noi si lascia dietro, componendo un mosaico in hd. Pubblicitariamente parlando, siamo passati dallo sparare nel mucchio a mirare con un fucile di precisione. Il punto di forza di CA è aver aggiunto una profilazione psicologica di massa. «È la tua visione del mondo che decide come ti comporterai, non tanto il fatto che tu sia donna o abbia un certo reddito» spiega Nix, neppure dissimulando il disgusto per l’approssimazione del marketing d’antan. La personalità si può desumere dal comportamento online, soprattutto sui social network. Per farlo, i suoi ricercatori usano un test standardizzato su cinque fattori, per misurare la prevalenza dei tratti di apertura, coscienziosità, estroversione, gradevolezza verso il prossimo e nevroticismo che formano l’acronimo Ocean.
«Abbiamo cominciato proponendo test sui social, a cui hanno risposto centinaia di migliaia di persone. Ma, a dispetto di alcune ricostruzioni giornalistiche, non abbiamo mai preso dati da Facebook senza il consenso degli utenti». Qui entra in scena il polacco Michal Kosinski, pioniere dell’approccio che combina psicometria e big data prima a Cambridge e oggi a Stanford. Al termine di una massiccia campagna di raccolta sul social network più noto, dopo aver sviluppato un modello matematico che individuava correlazioni tra le caratteristiche, aveva dimostrato di essere in grado, a partire da 10 like, di predire alcuni comportamenti di una persona meglio dei suoi colleghi, con 70 meglio degli amici, con 150 dei genitori e con 300 della compagna. A un certo punto Kosinski, come ricostruisce lo svizzero Das Magazin, viene avvicinato da Aleksandr Kogan, altro ricercatore a Cambridge, per conto di un’azienda disposta a pagare benissimo per l’accesso a quel tesoro di dati. Si scopre poi che è la Strategic Communication Laboratories, casa madre della CA, e si occupa di consulenza elettorale. Kosinski declina l’offerta e a Kogan non resta che assoldare migliaia di volontari su Mechanical Turk, la piattaforma di Amazon per i micro-lavori, perché riempiano i questionari a fronte di un micro-compenso.
Apparentemente, però, la app usata per i sondaggi non solo ottiene nome, sesso e attività dei volontari ma, a strascico, anche quelle di tutti i loro amici (in media 340 a testa). Così facendo Kogan, per conto della Scl (la società ammette la collaborazione, non il sacco dei profili), avrebbe costruito un’immane banca dati. Torniamo a New Oxford Street. Nix nega la ricostruzione. Nessuno ha rubato niente dal network di Zuckerberg. Quel che invece è successo, «nel rispetto di tutti, è la paziente costruzione, nell’arco di 3-4 anni, di una sofisticata banca dati che contiene i risultati dei sondaggi, gli acquisti con carta di credito e innumerevoli altre informazioni commerciali su circa 230 milioni di americani, di ognuno dei quali possediamo anche quattro-cinquemila dati diversi». Cambia la genesi, non il risultato. La persona davanti a me conosce quattro-cinquemila mila cosette sul conto di ogni americano adulto.
Il lettore smaliziato può reagire con una scrollata di spalle: se è per quello Gmail legge le nostre email e Google conosce la storia di tutte le nostre ricerche! La differenza però, sino a prova contraria, è che non ha usato quelle informazioni per venderci un candidato. Sempre Nix: «Grazie al nostro approccio di microtargeting possiamo consegnare due messaggi leggermente diversi all’interno della stessa famiglia. Pensate alle pubblicità di un’auto. Il marito sarà sensibile alla potenza del motore e all’accelerazione, la moglie a sicurezza e capienza del bagagliaio. Uno spot tradizionale deve scegliere un aspetto, scontentando metà del campione. Noi, invece, possiamo fare due spot». O quattromila. È ciò cui alludeva nel ‘94 il futurologo George Gilder nel profetico La vita dopo la televisione circa la sostituzione dei computer sulla tv rea di «disconoscere la rigogliosa diversità degli utenti». Che oggi può essere valorizzata. Attraverso molti canali: «Via telefono, parlando con il marito o con la moglie. Con la posta tradizionale. Con email distinte. Ma anche attraverso la tv via cavo, mostrando certi spot solo a chi vede certi programmi o vive in certe zone del Paese. Il tutto, enfatizzando il messaggio che risuoni meglio».
Oppure via dark post, annunci Facebook visibili solo a destinatari con caratteristiche specifiche. Tipo ricordare la gaffe della Clinton sui neri «super predatori» esclusivamente a un pubblico nero. Questo intende Nix quando assicura che «i miei figli non capiranno neppure il significato di mass media, per cui un uomo deve sorbirsi uno spot sui reggiseni e una donna uno sui rasoi da barba. Loro riceveranno solo ed esclusivamente messaggi rilevanti. Non è un fenomenale passo avanti?». Dipende. Accanto a lui, nel consiglio di amministrazione, siede Steve Bannon, ex presidente del sito di ultradestra complottista Breitbart News e oggi principale consulente strategico di Trump.
Nella stanza c’è anche una ventisettenne con capelli castani poco sopra le spalle e un bel vestito nero. Dopo una laurea in ingegneria a Oxford e un master in sociologia e data science a Chicago, Federica Nocera ha lavorato come analista alla Bank of America prima di approdare qui dove sviluppa modelli matematici predittivi, simili a quelli per prezzare i future o valutare la rischiosità dei mutui, che individuano correlazioni nel mare magno di informazioni che la CA detiene sull’elettorato americano. Semplificando brutalmente, se si scopre che le mogli dei reduci tendono a mettere like sul killer di un medico abortista, rivolgendosi a loro sarà il caso di omettere che la figlia di Trump si è detta favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza. Nocera, con altri due brillanti italiani, faceva parte della squadra di quattro persone che CA ha distaccato nel quartier generale texano della campagna trumpiana. Il loro compito era di analizzare i dati, concentrandosi sugli 80 milioni di americani dei 17 stati in bilico («Non aveva senso perdere tempo con gli altri»), per suggerire agli attivisti come tarare i messaggi.
Mi fa due esempi reali: «A un pubblico di madri, sia casalinghe che in carriera, di età inferiore ai 55 anni, parlavamo di misure di supporto alle famiglie (maternità pagata, agevolazioni fiscali) sostenuto da Donald e Ivanka Trump. A un pubblico di maschi disoccupati provenienti da zone con alto tasso di crisi e fenomeni di decentramento industriale, tipo Wisconsin e Michigan, il messaggio sarebbe ruotato intorno a misure di creazione di nuovi lavori e tassazione sulle società americane che esportano lavori all’estero». A ognuno secondo i propri bisogni. Con la differenza, rispetto all’utopia marxiana, che quei bisogni diventavano di colpo leggibili dai nuovi quant della politica. Nocera parla di «universo di persuasione» per riferirsi alle legioni che, basandosi sui registri elettorali (per chi si erano iscritti a votare in passato) e sui comportamenti digitali, analizzati dai modelli di cui è maestra, avrebbero potuto scegliere il miliardario con i capelli strani. Che alla fine ha vinto.
Ma come quantificare il loro apporto? Nix mette le mani avanti: «Ovviamente gli americani hanno votato Trump perché si sono fidati di lui. Noi però abbiamo fatto sì che il candidato, nella gamma di valori che esprimeva, fosse allineato al meglio con il suo pubblico. E valutiamo il nostro valore aggiunto in una percentuale tra il 2 e il 5 per cento». Ovvero la differenza tra vincere e perdere. Detto altrimenti, senza di loro alcuni temi della campagna non sarebbero arrivati a bersaglio. O peggio, recapitati negli orecchi sbagliati, sarebbero risultati controproducenti. Già Obama nel 2012 aveva usato i big data per mobilitare gli elettori. Compresa una app che dava accesso (consapevole) agli amici di Facebook di chi la scaricava. La Clinton ha ereditato quell’arsenale digitale e aveva molte più risorse dello sfidante. Quindi Trump ha vinto perché era Trump. With a little help from my friends, per dirla con i Beatles.
Più di un articolo, in Gran Bretagna, ha scritto del ruolo della casa madre Slc nella campagna di Nigel Farage, l’ex leader dello xenofobo Ukip, a favore di Brexit. Sul punto, Nix non nega né conferma: «La nostra sede principale è in Gran Bretagna e preferiamo non commentare su faccende così divisive». Direi che è un sì, al novanta per cento. Ammette invece che ormai danno una mano in «otto-dieci campagne all’anno, nel mondo». Anche in Italia hanno lavorato, sin dal 2012, con politici singoli di cui si rifiuta strenuamente di fare il nome. Una ricerca sugli archivi dei giornali e delle agenzie non ha dato niente: chiunque se ne sia avvantaggiato non ci tiene a far sapere dell’aiutino. Che, fra l’altro, deve essere costato caro. Trump ha sborsato almeno 5 milioni di dollari in un mese per i superpoteri telematici di CA. Certo, ne è valsa la pena, ma quando ha deciso di investire il loro palmares era molto più striminzito di adesso. Immagino che i cento dipendenti, tra Londra e New York, lieviteranno.
Chi non vorrebbe ripetere l’incantesimo che ha contribuito a traslocare il conduttore di The Apprentice alla Casa Bianca? Non a caso il sito dello psicologo Kosinski, da cui si può ricavare una valutazione psicologica automatica basata sulla propria attività su Facebook, si chiama applymagicsauce.com, aggiungi la salsa magica. La mia prova è stata un fiasco colossale. «Non hai abbastanza attività sui social per un test significativo» mi ha notificato il sistema. Chiunque sia più digitalmente estroverso di me può tentare la sorte e rischia di restare stupefatto. In pochi ci conoscono meglio dei depositari delle nostre biografie involontarie, una ricerca o un like alla volta. A quel circolo ristretto di giganti del web si è appena aggiunta una piccola ma potentissima boutique informatica londinese. Per cui il voto è solo la somma di tutti gli altri pollicioni che, quotidianamente, stampiamo sull’universo mondo.
L’intervista è del 10 febbraio 2017