La Sharing Economy nasce, forse inconsapevolmente, come “economia della condivisione” e le radici del suo enorme sviluppo stanno tutte nella Rete; anzi è l’economia della rete. “Riuso, riutilizzo, condivisione: sono queste le priorità delle tante realtà imprenditoriali nate negli ultimi anni e che utilizzano le tecnologie per un modello di economia circolare, all’interno della quale professionisti, consumatori e semplici cittadini mettono a disposizione competenze, tempo, beni e conoscenze per la creazione di legami che si basano sull’utilizzo della tecnologia in modo relazionale”. Ma non si tratta, o non si tratta solo, di un sentimentale strumento per condividere libri, viaggi, abilità o cose vecchie; la Sharing econony è uno strumento economico, con proprie specifiche caratteristiche, che (secondo le previsioni) in pochi anni arriverà a macinare circa 300 miliardi di euro l’anno. E’ una specifica realtà “imprenditoriale” e come tale è finalizzata a produrre reddito e ricchezza. La siringar economy è quello strumento che può permettere ad un singolo, ad un imprenditore, ad un artigiano o ad un professionista di operare o raccogliere fondi globalmente con bassi investimenti in un mercato inimmaginabilmente esteso.
Anni addietro tre studenti negli USA, per sostenere i propri costi di permanenza all’università, decisero di sub-affittare un divano ad altri studenti. Si resero conto che si trattava di un bisogno diffuso e iniziarono a promuovere quella disponibilità su un piccolo sito. Oggi quel sito è AIRBNB uno dei più importanti “luoghi virtuali” di incontro tra domanda ed offerta per locazioni turistiche o di lavoro, opera globalmente e vale miliardi. E’ un esempio che ci dice quanto la sharing economy possa premiare l’innovazione, le intuizioni giuste, le competenze e le nuove opportunità fornite dalla rete. Ma facciamo un po’ di chiarezza: in che cosa sta la “condivisione” di Airbnb? Ciò che viene condiviso non sono gli immobili, ma la possibilità, per centinaia di migliaia persone, di mettere a reddito nel mercato mondiale del turismo – praticamente senza rischi – una propria disponibilità immobiliare, piccola o grande che sia.
BlaBlaCar (ma segnalo anche “BikeMI” o “Car2Go”) è una bacheca virtuale che consente ai privati di condividere le spese di un viaggio in auto. In questo caso si condividono l’utilizzo del mezzo e le spese del viaggio. Molti enti pubblici, nel lodevole tentativo di limitare l’utilizzo delle autovetture private (e contenere il conseguente inquinamento), hanno complessivamente speso milioni di euro pubblici con mediocri risultati. A raggiungere questi obiettivi sicuramente (ed in poco tempo) ha contribuito molto, molto di più BLABLACar; a costo zero per le finanze pubbliche e permettendo di condividere i costi di viaggio dei singoli utilizzatori.
La sharing economy è portatrice di nuova cultura economica. Strumenti di valutazione, efficienza, comunicazione, condivisione, parametri di redditività e produttività, sicurezza, privacy, garanzie, infrastrutture, livelli di competenza e consapevolezza sono tutti termini classici da rileggere alla luce dei profondi cambiamenti avvenuti in questi anni. “Fiducia” e “reputazione sulla rete” sono invece concetti che hanno una loro declinazione assolutamente innovativa su internet. Piaccia o non piaccia anche la visione del lavoro o dei lavori non potrà più essere uguale al passato. L’economia della rete non è omogenea ne per finalità ne per modalità operative. Airbnb è diverso da Booking (per costi, storia, operatività e prevalente tipologia d’utenza); BlaBlaCar è profondamente diverso da UBER (per finalità e modalità operative); Utilizzare (bene) il crowdfunding (vero) – “raccolta di fondi, per lo più tramite Internet, attraverso piccoli contributi di gruppi molto numerosi che condividono un medesimo interesse o un progetto comune oppure intendono sostenere un’idea innovativa” – è esageratamente diverso che rivolgersi ad una banca per ottenere finanziamenti per avviare progetti o nuove attività e l’elenco potrebbe essere lungo.
Nuova economia si, ma vecchio e nuovo si intersecano in un groviglio assai complesso da gestire. Per Gig economy s’intendono tutte quelle attività che, nell’ambito della economia della rete, si configurano come lavoretti occasionali svolti da privati con mezzi propri senza alcuna protezione o garanzia; spesso – nei fatti – si tratta spesso di cottimo puro. Per tutti, agli “onori” della cronaca, i casi dei “taxisti” di UBER o i “rides” (in sostanza fattorini) di FOODORA e il groviglio di conflitti che si sono scatenati. “La gig economy è un sistema di lavoro freelancizzato, facilitato dalla tecnologia che ha a che fare con esigenze generazionali e sociali. È una forma efficiente di impresa capitalistica. Su lavori che scontano flessibilità e intermittenza”. Nelle economie più avanzate l’indiscusso successo (nonostante i molti problemi) di queste tipologie di “lavoretti” è generato dalla capacità di creare comunque reddito per molti strati sociali in crescenti difficoltà economiche; in particolare per i troppi giovani esclusi dal mercato del lavoro classico e dai lavori che non esistono più.
Dunque non tutto ciò che proviene dalla Silicon Valley è bello, buono e indiscutibile; ma bisogna saper distinguere perché questioni complesse difficilmente possono essere risolte (o governate) con visioni ormai antiquate o semplicistiche.