Lo sciopero dei rider di Foodora viene spesso indicato come il primo segnale di crisi dell’economia della condivisione in Italia. Ma riguarda un altro tipo di economia, quella dei “lavoretti”
Di Luca Zorloni. Dal sito WIRED.it del 18/10/2016
Scricchiola il modello della sharing economy in Italia. È questa una delle letture, tra le più comuni, dello sciopero dei rider di Foodora. La manifestazione – in tutti i sensi – che qualcosa non funziona nella macchina dell’economia della condivisione.
Ma cosa c’è di condiviso in un servizio a pagamento di consegna del cibo a domicilio? Proprio niente. Né la bicicletta men che meno il pasto. Così come non condivide niente l’autista di Uber o l’addetto alle pulizie di Helpling. Non condividono l’auto, né la benzina, né spazzolone e strofinaccio. Per questo si preferisce parlare di gig economy. L’economia del “lavoretto” o economia on-demand.
Lessico digitale? Tutt’altro. C’è una differenza tra andare a chiedere in prestito al vicino di casa il trapano e chiedergli di fare il lavoro anche in cambio di una mancetta. Nel primo caso si condivide, nel secondo caso no. Elementare, Watson. Almeno nella vita di tutti giorni. Quando però si passa alle grandi categorie economiche, suona meglio abbinare alle aziende cresciute nell’epoca del digitale la parola sharing. Che in fondo, come il nero, sta bene un po’ con tutto.
“Sull’economia della condivisione manca una definizione condivisa, si ironizzava in un paper scientifico qualche anno fa – racconta Antonio Aloisi, ricercatore dell’università Bocconi di Milano specializzato in diritto del lavoro -. In dottrina si è data come definizione di sharing economy la monetizzazione di risorse sottoutilizzate o non utilizzate”. Come il trapano: che senso ha comprarne uno per usarlo una tantum? Tanto vale chiederlo in prestito. “Nella sharing economy si punta ad abbattere i costi condividendo azioni che si farebbero comunque”, spiega Aloisi.
L’esempio di Blablacar calza a pennello: l’automobilista pianifica un tragitto e per contenere le spese, mette a reddito i posti liberi. Ma l’autista di Uber non decide di partire dalla Stazione centrale di Milano per andare in albergo e, già che c’è, dà un passaggio al turista di turno. L’autista di Uber si sposta su chiamata. Come un taxista. Tanto da aver fatto saltare la mosca al naso alla categoria. Ma questa è un’altra storia.
La gig economy è un sistema di lavoro freelancizzato, facilitato dalla tecnologia – prosegue Aloisi – che ha a che fare con esigenze generazionali e sociali. È una forma efficiente di impresa capitalistica. Su lavori che scontano flessibilità e intermittenza”.
È il caso dei rider di Foodora, pagati a consegne. Rider che nient’altro è che un esotismo per indicare il più prosaico fattorino. Questi corrieri sono inquadrati in una collaborazione organizzata dal committente, per esempio nella gestione dei turni, devono indossare un’uniforme di rappresentanza, ma devono sobbarcarsi i costi degli strumenti di lavoro, come smartphone e bicicletta.
I mestieri della gig economy e la loro contrattualizzazione sono finiti sotto i fari dei giuslavoristi. “Ci sono indizi di subordinazione, come il fatto di avere dei turni o il potere disciplinare della piattaforma, che arriva all’estromissione”, osserva Aloisi. Una zona grigia tra il lavoro da freelance e quello da dipendente. Negli Stati Uniti Uber non ha fatto notizia per le proteste dei concorrenti diretti, i taxisti, quanto per i numerosi processi incardinati con l’obiettivo di far luce sulle condizioni di lavoro degli autisti: sono autonomi o no?
Inizia a masticare parole come gig economy o sharing economy anche una rappresentazione del lavoro vecchia maniera come il sindacato. “Sono lavoratori difficili da intercettare”, ammette Massimo Bonini, segretario della Cgil di Milano. Il sindacato ambrosiano ha aperto uno spazio di coworking per avvicinarsi alla galassia delle partite Iva, con corsi di formazione “sui regimi fiscali o sui contributi previdenziali – spiega Bonini – e assistenza alla rendicontazione di un bilancio”. Lavoratori freelance che spesso servono la catena della sharing economy.
Il segretario della Cgil milanese ricorda che “il governo ha in ballo da tempo un disegno di legge sulla sharing economy”, con l’obiettivo di fare luce anche sull’inquadramento dei lavoratori. Una rosa avrà pure lo stesso profumo anche se la chiama in un altro modo. Ma tra gig e sharing è bene mettere i puntini sulle i. Prima di sentire puzza di bruciato.