«L’utopia è come l’arcobaleno: a volte sembra dietro l’angolo, ma è sempre irraggiungibile». Non è un caso i ricercatori tedeschi Sascha Dickel e Jan-Felix Schrape lo scrivano in un recente saggio dedicato a comprendere la logica dell’«utopismo digitale». Perché
su Internet, dopo decenni di previsioni favorevoli, incombe il diluvio. Per molti, eredi dell’ideologia californiana degli anni 60, la rete avrebbe dovuto portare più uguaglianza, democrazia, collaborazione paritaria, intelligenza collettiva. Un
paradiso libertario di autodeterminazione individuale e riscatto sociale, in cui le avide mani di governi e multinazionali non avrebbero dovuto avere voce in capitolo. Quelli che John Perry Barlow definiva «stanchi giganti di carne e acciaio», nella celebre Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio del 1996, non sarebbero divenuti che un ricordo del passato.
Oggi è chiaro che non è andata così. Dopo le nubi della Guerra Fredda, non c’è stato il promesso rischiararsi cibernetico in cui uomo e macchina, insieme, procedono spediti verso la pignatta d’oro. Ci sono invece monopolisti dei dati che sorvegliano le nostre vite e le tramutano in profitti senza precedenti. E la retorica dominante racconta di un mezzo, la rete, in cui è più semplice confondere scientificamente vero e falso, diffondere sofisticata propaganda, e compiere ogni sorta di malefatta.
Molti entusiasti se ne sono accorti, e si sono ricreduti. L’ultimo è il co-fondatore di Twitter, Evan Williams, che ha confessato di ritenere che la rete si sia “rotta”: «Credevo che il mondo sarebbe diventato automaticamente un luogo migliore, una volta che chiunque fosse stato in grado di parlare liberamente e scambiare informazioni e idee», ha dichiarato al New York Times . «Mi sbagliavo».
Ma i precedenti sono celebri. L’inventore del web, Tim Berners-Lee, ha scritto a marzo sul Guardian di essere «preoccupato» per alcune tendenze in atto sulla sua creatura, a partire dalla perdita di controllo sui propri dati personali, con il rischio diventi – o resti – a beneficio di pochi, non di tutti.
Perfino gli estensori del celebre e influente “Cluetrain Manifesto”, David Weinberger e Doc Searls, hanno dovuto ammettere nelle “New Clues” del 2015 che «la rete rende più facile esprimere e udire» l’odio, e che la “demonizzazione” dei “diversi” è «peggiore di sempre su Internet».
E non è un caso, forse, che il principale critico del “tecno-utopismo”, Evgeny Morozov, apra il suo primo, fondamentale volume – “L’Ingenuità della rete” – con la confessione di essere stato, a sua volta, un tecno-utopista. Cosa è andato storto? «Credo non sia andato storto nulla», risponde Dave Winer, padre del blogging, all’Espresso. «Eravamo solo umani, e ottimisti rispetto a qualcosa di nuovo e lucente. Certo», ammette, «se fossi stato più introspettivo negli anni ’90 avrei visto l’oscurità alle porte. Ma era una festa. Una festa tecnologica. Tutto ciò che pensavo sarebbe accaduto stava accadendo. Dopo aver creduto che ogni speranza riposta nella tecnologia fosse vana, e che stessimo entrando in una nuova età del buio, nella metà degli anni ’90 la diga si ruppe, e tutto quanto volevo funzionasse, funzionava».
Erano gli anni dell’avvento della rete commerciale, dell’“information superhighway” dell’amministrazione Clinton-Gore, l’alba di una “rivoluzione” in cui progresso tecnologico e progresso sociale avrebbero necessariamente coinciso. Nasceva la rivista Wired, su cui pensatori come Kevin Kelly parlavano di “mente alveare”, cervelli connessi in esperienze superumane, collettive, derivate dalle sperimentazioni hippie e dall’etica hacker, dal catalogo universale di Stewart Brand e dalla filosofia – ancora oggi associata al neoliberismo più selvaggio – di Ayn Rand. Scrivono Dickel e Schrape che «la prospettiva di una decentralizzazione, democratizzazione e di un livellamento più equo della società tramite la tecnologia corrisponde a un’utopia fondamentale che ha da lungo tempo caratterizzato le scienze sociali e si è associata a quasi ogni nuovo mezzo di comunicazione a partire dalla “teoria della radio” di Bertolt Brecht nel 1932». Tradotto, significa «la speranza di ottenere una implementazione tecnologicamente mediata degli ideali dell’Illuminismo così come iscritti da Immanuel Kant nel canone della cultura Occidentale».
E invece ciò che scopriamo oggi è semmai l’attualità della nozione di “ritardo culturale” sviluppata nel 1964 da William Ogburn. L’idea cioè, ricordano Dana R. Fisher e Larry Michael Wright in un attualissimo saggio del 2001, che la tecnologia proceda troppo rapidamente per la società, e che ciò causi «interpretazioni irrealistiche ed estreme» nel discorso pubblico sulle conseguenze dello sviluppo tecnologico. Solo utopie e distopie. È accaduto con la radio e la televisione, sta accadendo oggi più che mai con Internet. «Comprendo e sento», risponde infatti Weinberger, «il disappunto culturale verso la rete. E lo dico con una certa vergogna», ammette, «essendo stato uno dei primi promotori della rete come forza per il cambiamento culturale».
Eppure il filosofo e saggista del Berkman Klein Center di Harvard non dispera. Anzi, ricorda come sia «vitale tenere a mente quanto Internet abbia simultaneamente trasformato i sistemi e le istituzioni esistenti in meglio e liberato i migliori impulsi dell’umanità». Certo, non solo quelli, ma «dimenticarli ora rischia di portarci a reagire in maniera sproporzionata e perdere ciò che abbiamo guadagnato; l’equivalentescrive via mail, «di serrare le labbra perché mentono troppo spesso». Il riferimento, nemmeno troppo velato, è alle misure repressive immaginate dai governi di tutto il mondo democratico in risposta a “fake news” ed estremismi: «Ciò che di buono e cattivo ha prodotto Internet dipende strettamente dalla sua architettura. Se la distruggeremo per prevenire i danni di cui leggiamo incessantemente», dal cyberbullismo al terrorismo, «perderemo anche tutto ciò che di profondamente buono e umano c’è in Internet». Indebolire la crittografia per legge, criminalizzare il falso, trasformare i colossi web in sceriffi, in altre parole, sarà pure una presa d’atto del fallimento di un’utopia, ma rischia di produrre il suo contrario.
Tanto più che, argomenta il Senior Researcher del Centre for Internet and Human Rights, Ben Wagner, «con il senno di poi è facile criticare l’ottimismo del passato, ma senza la speranza e l’ottimismo che hanno guidato lo sviluppo delle tecnologie di rete per decenni saremmo in una posizione ben peggiore di quella attuale». Ciò che conta oggi è semmai rendersi conto di due errori fondamentali: il primo è «la credenza diffusa che le tecnologie possano o debbano essere neutrali e non incorporare alcuna politica»; il secondo, cruciale: «Mettere un diritto umano contro l’altro, con il risultato che sono tutti i diritti a rimetterci».
È ciò che avviene ogni volta che contrapponiamo sicurezza a libertà di pensiero, o diritto alla salute e privacy. Alcuni hanno pensato che la via di uscita sia nel distanziarsi dagli estremi, e costruire un più sano ed equilibrato “cyber-realismo”. Ma anche questa strada è pericolosa, ricorda Wagner: «L’idea di un realismo è perfino peggiore delle distopie attuali», sostiene, «perché immagina non ci sia speranza, e che lo status quo sia statico. Perfino le distopie riconoscono che le cose vanno male e necessitano di cambiamento. Ecco perché», conclude Wagner, «la speranza e l’idealismo sono così importanti. Perché consentono agli esseri umani di reimmaginare il ruolo che i social media potrebbero e dovrebbero avere nella società». Winer, per esempio, ritiene sia tempo di tornare al blogging, e smetterla di nutrire i “recinti” come Facebook. Per quanto Mark Zuckerberg parli di un mondo “aperto e connesso”, infatti, ogni contenuto pubblicato sul suo social network resta confinato a Facebook – un altro piccolo o grande chiodo nella bara dell’“open web”. Quello che aveva motivato le utopie del passato. E che oggi sembra schiacciato dalla marea montante dei capitalisti del digitale, dalla confusione che vogliono imporre tra loro stessi e tutta la rete, e dalla loro idea di futuro.
«E se domani Facebook volesse cambiare le condizioni dell’accordo» con i propri utenti, si è chiesto il blogger John Gruber, «e bloccare l’accesso pubblico ai post che oggi sono pubblicamente visibili?». Niente glielo impedirebbe. E già ora il social network impedisce di salvare le proprie pagine nel magazzino dei ricordi della rete, l’Internet Archive. «Ho visto video di Zuckerberg dieci anni fa», dice Winer, “e sembra me negli anni 90. Cosa è cambiato? Stava recitando? Non so nemmeno più quanto sia importante davvero, a me sembra che Facebook stia morendo”. Di certo, la sua utopia – quella di un’unica piattaforma chiusa e proprietaria che diventa il sostrato della nuova società iperconnessa – è diversa da quella di Winer e dei pionieri della rete di massa.
Ciò che resta da capire e se gli utenti se ne siano accorti, se siano interessati a comprenderne le conseguenze. E a salvare il salvabile.